Nel cuore del Mar Caraibico, Bill Coore e Ben Crenshaw hanno creato 18 buche mozzafiato, quelle del Point Hardy Golf Club al Cabot Saint Lucia. Un disegno scenografico in un ambiente unico, che non ha nulla da invidiare ai celebri Cypress Point e Pebble Beach.
Andiamo a scoprire questa bellezza del cuore delle Piccole Antille con Derek Dunkan di GolfDigest.
Gioco estremo
In tanti anni in giro per il mondo alla scoperta dei migliori campi raramente mi è capitato di rimanere così affascinato da uno in particolare. Cabot Saint Lucia, a nord della medesima isola caraibica, nel cuore delle Piccole Antille, lascia davvero a bocca aperta.
Quando vidi la prima volta la buca 17, rimasi imbambolato a fissare la scarpata, fatta di roccia striata e alberi che si innalzano su una baia dove l’acqua cristallina dell’oceano colpisce la costa. Anche se allora non era ancora stato completato, quel par 3 trasmetteva una sorta di stimolante paura che i golfisti di solito provano quando si trovano sul bordo di un lembo di terra e devono fare un colpo ad attraversare l’acqua. In questo caso di 170 metri in salita, verso un green invisibile che in qualche modo sarebbe stato livellato sul lato opposto della scogliera.
La mia prima visita risale a marzo del 2020, quando mi unii agli architetti Bill Coore, Ben Crenshaw e al loro socio Dave Axland per dare un’occhiata al percorso del nascente Point Hardy Golf Club. I lavori erano iniziati solo poche settimane prima, solo sette delle diciotto buche erano state iniziate ma non bisognava essere un architetto esperto per riconoscere che un campo in questo posto non avrebbe avuto eguali in termini di rapporto con l’Oceano e pura potenza visiva. Sia le prime che le seconde nove buche salgono prima su pittoreschi altopiani e poi scendono lungo la costa, fornendo una serie di visuali mozzafiato che spaziano lungo il bordo roccioso della terra e del mare. Cinque delle nove buche costiere richiedono colpi che devono attraversare l’Atlantico, tra cui la 17, la più micidiale. Pebble Beach e Cypress Point hanno tre buche ciascuno simili a queste. Termini come spettacolare e mozzafiato sono spesso abusate quando si descrivono i campi da golf, ma a Cabot Saint Lucia sembrano quasi insufficienti.
Crenshaw a quel tempo vedeva per la prima volta la location e aveva molto da metabolizzare. Di tanto in tanto si allontanava per ottenere una visuale migliore su un determinato aspetto o su un’area verde, come se stesse già giocando su quel campo e lo stesse scomponendo tatticamente.
A differenza della maggior parte degli architetti moderni, Coore e Crenshaw non eseguono studi di fattibilità, rilievi o progetti tecnici. Lavorano a braccio, perfezionando le loro buche a ogni passaggio, facendo molto affidamento sui modellatori e collaboratori per interpretare i loro concetti e trovare i dettagli migliori del campo, e per aggiungere le loro idee quando si sentono ispirati. Non c’è nulla di affrettato, o addirittura di concepito, fino a quando non è il momento giusto.
Chiedo ad Axland, che è con Coore e Crenshaw dalla fine degli anni ‘80 e ha gestito progetti per loro che includono Friar’s Head a Long Island e Lost Farm in Tasmania, cosa ne pensasse del sito: “È un’isola vulcanica. Stiamo cercando di costruire un campo da golf sulla roccia”.
Coore identificò undici posizioni approssimative per i green. Molti di questi, come quello del par 3 della 7, situato su uno stretto istmo sopra le falesie, erano troppo belli per non essere usati. Come disse Crenshaw alla buca 9, un altro par 3 che si gioca da una collina verso un prato piatto con lo sfondo delle scogliere oceaniche “Se non riesci a identificare questi posti per i green, forse dovresti cambiare lavoro.”
Creare percorsi all’estero, nelle migliori circostanze, presenta degli ostacoli: ottenere permessi particolari, orientarsi tra norme ambientali e politiche locali, e gestire ritardi nella catena di produzione. Lavorare ai tropici, con particolari considerazioni climatiche, erbose, forestali e topografiche (o in assenza di esse), intensifica lo sforzo e spiega perché ci sono così pochi bei campi nei Caraibi. La proprietà di Saint Lucia possedeva anche notevoli salti di quota tra le buche in pianura e le aree interne più elevate.
Connettere le buche richiedeva un grado di livellamento e una modellazione del sito che andava ben oltre ciò a cui erano abituati Coore e Crenshaw, che in genere lavorano su pendenze più miti, di solito sulla sabbia che è più malleabile.
Coore, tuttavia, aveva ancora dubbi sulla potenziale giocabilità a causa dei proibitivi cambiamenti di quota. Era particolarmente preoccupato per l’aggressiva salita della 1 e per la 5, un par 4 che parte dalla stessa cima e va nella direzione opposta. Non era altro che una giungla che si tuffava in un burrone (la 5 e la 6 hanno un dislivello di più di 60 metri dal punto più alto alla costa). La vista della 15 è sensazionale: i drive in questo corto par 4 dovranno volare sopra una baia battuta dalle onde dell’oceano, verso una parete diagonale di roccia e un fairway nascosto da ricavare dal fianco della montagna. Più aggressiva è la linea di gioco maggiore dovrà essere il volo della palla.
Arriviamo alla 17, come archeologi in una foresta pluviale che si imbattono in una rovina monolitica. Crenshaw scruta la facciata simile a una fortezza. “Voglio sicuramente che si giochi un bastone con poco loft per questo colpo”, asserisce. Fischietta e fa un gesto con la mano che imita il volo che avrebbe dovuto avere la pallina che scende in caduta libera verso l’Atlantico.
La 18 è un par 5 corto dove il secondo o terzo colpo deve volare sopra a Donkey Beach verso un altro green con un lato a picco sul mare. Una volta che Coore determina il percorso di un campo, lui e Crenshaw lo progettano camminando. Alla buca 4, un par 3 in stile Redan, Crenshaw vede pendenze e gradi invisibili ai miei occhi. “Abbassa un po’ questa gobba.” La 14 era stata pulita e in qualche modo trasformata in un’autostrada di par 5 in discesa, con un green messo in cima a una scogliera.
Il green della 16 fatto come una penisola – il primo dei par 3 consecutivi che intersecano la baia, che su qualsiasi altra proprietà, in qualsiasi altro universo, verrebbe considerato il più eccezionale del campo – sembra aver aspettato secoli per l’arrivo del golf. “La maggior parte delle persone guarda la 16 e pensa: ‘È nata per essere una buca da golf’’, afferma Coore. “Invece non c’era. Keith Rhebb ha lavorato molto duramente per ottenere la pendenza giusta, così che guardandola pensi che sia sempre stata lì”.
Come la 17, che rimane scandalosa sia nella presentazione che nel grado di trasformazione. Salgo sul promontorio ma scopro che non c’è ancora un battitore. “Questa è davvero una buca da fantagolf” dice Coore, scrutando con gli occhi l’abisso, mentre il vento soffia forte. In green Crenshaw elogia Rhebb e Dormer per l’enorme risultato tecnico che ha reso la superficie puttabile e i dintorni giocabili e ricettivi ai colpi lunghi, dopodiché fa delle osservazioni su come modificarlo.
Altre osservazioni arrivano per apportare delle modifiche al green della 18, che Dormer in seguito ammette essere già stato cambiato tre o quattro volte. Verso la fine della giornata, mi trovo insieme a Coore all’inizio della buca 10 che sale su un pendio simile a quello della 1. Terrazze e piattaforme di atterraggio sono state posizionate sul fairway per contenere le palline, e siccome sono fatte di terra, sembrano le piramidi di un videogioco. Alcuni cactus punteggiano la collina e la vegetazione a macchia verde screziata copre i rilievi sullo sfondo.
Mancavano solo le ultime decisioni progettuali per le buche 11, 12 e 13, un aperitivo prima del quintetto finale di buche, che invece è come un pasto a un ristorante stellato Michelin. Crenshaw e Dormer discutono di un pezzo di terra che sembra il monte di un lanciatore di baseball in scala ridotta, sul green della buca 12. “Questo va molto bene”, afferma Crenshaw. “Fa’ che nessuno lo tocchi.” Dopo aver guardato l’undicesimo green per un po’, afferma: “Vedo un bacino qui, nella parte anteriore sinistra”. Questo lavoro sulla superficie e queste considerazioni su come si muoveranno le palline sul terreno avvengono silenziosamente sullo sfondo di ogni campo progettato da Coore e Crenshaw. Altrettanto riflessivo, e più ovvio, è il loro modo di trattare i cinque diversi Par 3 del campo, probabilmente la serie più esaltante del pianeta, che si giocano su diverse lunghezze, orientamenti ed esposizioni. Non ci sono punti deboli.
Il campo deve ancora essere completato e dovrebbe aprire entro la fine del 2023 ma sembra inevitabile che l’attenzione sarà presto fissata su Cabot Saint Lucia. Point Hardy non sarà uno dei progetti architettonicamente più elaborati di Coore e Crenshaw perché nessuna architettura può competere con gli aspetti pirotecnici presenti lungo la costa. Le buche più gratificanti e complesse sono quelle più lontane dall’acqua, come la 2, la 11, la 12 e la 13. Coore, prevedibilmente, mantiene il suo solito contegno. “Chiunque può costruire uno dei campi visivamente più spettacolari del mondo in questo luogo ma poi le persone vorranno giocarci? O sarà un campo in cui la gente ci giocherà una volta e basta? Questa è stata la nostra più grande preoccupazione fin dall’inizio”. Con la stessa vena, aggiunse: “Ma sai, sto lentamente iniziando a pensare che questo campo potrebbe in fondo davvero funzionare”.