L’offerta golfistica italiana si divide in due grandi categorie: i campi per i soci e quelli aperti a tutti. La seconda categoria è relativamente nuova: fino alla metà degli Anni Ottanta se volevi calpestare un fairway dovevi diventarne, anche se in piccola parte, proprietario.
L’obiettivo di chi sborsava queste cifre – spesso molto ingenti, in ogni caso mai irrisorie – era di poter rincorrere una pallina in libertà, dividendo questo piacere con gli amici, meglio se in un circolo accogliente, ben attrezzato e ben frequentato.
Il numero dei praticanti stava intanto lievitando, soprattutto grazie all’apertura di impianti agili e spartani, campi pratica vicini alle città, dove con poche lire (allora si ragionava ancora con l’antico conio) si veniva iniziati ai misteri dello swing, alle delizie del draw e ai drammi di socket e slice.
I golfisti così sfornati hanno rappresentato un mercato appetibile e in quegli anni è quindi nato un nuovo tipo di circolo, dove la proprietà non è dei soci, ma di imprenditori che nel golf hanno
investito e investono. Il loro scopo non è di divertirsi con gli amici, visto che hanno deciso di devolvere questo privilegio ai loro clienti/giocatori, ma quello di far rendere al massimo il loro investimento.
Per un certo periodo i due mondi si sono guardati in cagnesco, gli uni preoccupati di un processo di volgarizzazione del loro giocattolo, gli altri di essere considerati solo degli intrusi da chi – i club storici – gestiva e gestisce le sorti del golf tricolore attraverso la Federazione.
Ultimamente, complice la crisi che morde i bilanci dei primi e dei secondi, si apprezzano sintomi non solo di distensione ma addirittura di collaborazione, se è vero, come sostiene Giuliano Bagnoli, che “fino a oggi tutti si sono buttati sul taglio dei costi. Ma più di così non si riesce a tagliare.
Occorre aumentare i ricavi, utilizzando le due uniche leve, l’incremento del numero dei soci e quello dei green fee.
Per riuscirci, però, occorre che tutti ci si dia una mossa. Oggi le compagini che in Italia formano il mondo del golf non sono un sistema, sono solo un insieme.
Circoli, direttori, maestri, Federazione remano ognuno per conto proprio. Forse è per questo che, pur avendo circoli bellissimi, ma non riusciamo a competere con Algarve, Spagna, Marocco e Turchia”. Giuliano Bagnoli non parla per sentito dire.
È uno che di golf se ne intende. È il presidente di GolfImpresa, il Consorzio nato tre lustri fa per riunire i proprietari di campi da golf e che da una decina di anni si è aperto anche alle società senza fine di lucro che gestiscono percorsi e clubhouse.
Oggi raggruppa 60 strutture consorziate in 11 regioni italiane, per un totale di 920 buche di golf, 700.000 green fee venduti all’anno per un giro d’affari complessivo che supera i 50 milioni di euro. Per lui e per i suoi colleghi il golf è certamente uno sport bellissimo e intrigante, ma anche un modo per fare impresa con sistemi manageriali, quelli che ancora oggi fanno difetto a molti circoli italiani.
Ad esempio a quelli – visitati di recente, credetemi sulla parola – che a fronte di percorsi entusiasmanti, in paesaggi da favola, carichi di colori e di storia, mandano gli ospiti a cambiarsi in uno spogliatoio minuscolo e decentrato, dall’arredamento che farebbe arrossire anche l’addetto di un campetto da calcio di terza categoria.
Con l’acqua delle docce calda solo a intermittenza, che farà forse anche bene alla salute, ma più che altro fa innervosire chi ha sborsato centinaia di euro a temperatura ambiente per un green fee e l’utilizzo di un golf car.
Sperare di aumentare il turismo e di battere Algarve, Costa del Sol, Marocco e Turchia con questa filosofia è una pericolosa utopia.
O forse ad alcuni circoli il turismo golfistico non interessa.
Quello che importa è unicamente la soddisfazione dei loro soci. Liberi di pensarlo.
Ma liberi noi, che la sacca la teniamo sempre pronta nel bagagliaio della macchina e non inchiodata nel deposito del caddie master, di starne serenamente alla larga.