Continua il nostro percorso di avvicinamento alla Ryder Cup 2023, celebrata da Golf & Turismo attraverso le parole di chi ha scritto la storia della biennale sfida Europa-Stati Uniti e contribuito a crearne negli anni il suo mito.
L’occasione per fare due chiacchiere con un altro dei capitani vincenti del Team Europe dell’ultima decade ce la fornisce l’80° Open d’Italia e Rolex, partner ufficiale della Ryder Cup e della nostra massima manifestazione golfistica nazionale.
Al Marco Simone incontriamo così nella lounge Rolex al villaggio ospitalità il condottiero della squadra europea nell’ultima edizione disputata in Europa, Thomas Bjørn. Il capitano dell’indimenticabile trionfo di Parigi, quello in cui Francesco Molinari con cinque match su cinque conquistati ha scritto una nuova pagina di storia della Ryder e del golf azzurro.
Il campione
Classe 1971, professionista dal 1993, è stato il primo danese a vincere sull’European Tour. Di titoli ne ha poi conquistati ben 15 sul principale circuito continentale e 23 in totale. Ha sfiorato più volte un titolo major (di Slam ne ha giocati 58), chiudendo tre volte secondo tra Open Championship e PGA Championship agli inizi degli anni 2000.
Ma la sua fama è cresciuta esponenzialmente con l’ingresso nel team di Ryder Cup. L’esordio è datato 1997, anno dell’indimenticabile trionfo europeo a Valderrama, in Spagna, guidati dal leggendario Seve Ballesteros.
Cresciuto all’ombra di grandi miti del golf continentale, Bjørn è stato ed è tutt’oggi un vincente nato. In Ryder Cup da giocatore non ha mai perso un’edizione: oltre a quella di Valderrama, ha fatto parte del Team Europe nei trionfi di Belfry (2002) e di Gleneagles (2014). A Parigi, da capitano, il suo capolavoro, con la schiacciante vittoria 17,5 a 10,5 sui favoritissimi americani. Da oltre dieci anni è uno dei brand ambassador Rolex, maison legata al golf e a tutti i più prestigiosi eventi mondiali dagli anni 60 e che vanta tra i suoi testimonial i più grandi nomi passati e presenti del nostro sport.
L’intervista
Cosa significa per te la Ryder Cup?
È un evento veramente difficile da descrivere: prima l’ho vissuto dalla prospettiva del tifoso, poi come giocatore del Tour sogni improvvisamente di farne un giorno parte. Quando sei uno spettatore ti fai trascinare dall’emozione, quando invece diventi professionista farne parte diventa il riconoscimento per un percorso di successo.
La generazione con cui ho avuto la fortuna e l’onore di giocare, quella di Nick Faldo, Bernhard Langer, Ian Woosnam, Save Ballesteros e Jose Maria Olazabal, è stata determinante per la crescita di mentalità e di consapevolezza di tutto il movimento europeo. Averli al fianco, considerando tutto quello che sono stati in grado di fare tra gli anni 80 e 90 per la Ryder Cup, è stato qualcosa di unico. Nel team, dai giocatori sino ai vice capitani e ai caddie, si respirava un senso di responsabilità e di appartenenza a un gruppo speciale, un team che è stato in grado spesso di sovvertire ogni pronostico andando oltre le proprie possibilità. Quell’eredità che questi campioni ci hanno tramandato è l’aspetto più importante da preservare e ciò che ora noi stessi abbiamo l’obbligo di trasmettere alle nuove generazioni. Se la Ryder Cup è diventata l’evento che oggi conosciamo, grande merito va a questi campioni, alle loro gesta ma soprattutto a quello sono stati in grado di insegnarci.
Oggi riuscire a far capire ai nuovi talenti del Tour cosa davvero significhi la Ryder non è così facile, perché parliamo a una generazione diversa, figlia di questi tempi. La passione è la chiave di tutto, e poi essere in grado di calarsi in una dimensione totalmente differente da quella a cui si è abituati, non più individuale ma di gruppo.
A Roma sarai ancora una volta vice capitano. Ci spieghi come cambiano le prospettive in base al ruolo che si ricopre?
Io ho avuto la grande fortuna di vivere la Ryder da ogni punto di vista, da appassionato, da giocatore, da addetto ai lavori, da vice capitano e infine da capitano e tutte sono molto diverse tra loro.
Da vice capitano il tuo compito è quello di dedicarti totalmente ai giocatori, cercare di stimolarli e tirare fuori il meglio di loro facendo ricorso alle tue esperienze personali. Come capitano invece il ruolo è molto più strutturato e complesso: sei coinvolto in ogni aspetto dell’evento. Da fuori uno pensa che tutto o quasi si concentri nella settimana del torneo, sul campo, ma non è così. È un lavoro quotidiano su ogni fronte per mesi, dal momento in cui si viene incaricati di guidare la squadra.
La gestione dei rapporti con i media è poi uno degli aspetti più importanti e delicati, bisogna saper coordinare nel modo corretto tutta la comunicazione e dire le cose giuste nel momento giusto.
Per me la Ryder è l’evento più importante del golf europeo, più di qualsiasi altro major. Oggi le nuove generazioni di talenti europei forse la sottovaluta un po’, soprattutto chi sta crescendo e giocano negli Stati Uniti. Merita invece di continuare a essere considerato il più grande evento golfistico al mondo e quello a cui devono aspirare tutti i migliori giocatori perché non esiste e mai esisterà nulla di simile alla Ryder nel nostro sport.
Parliamo di Parigi e di quella indimenticabile vittoria del 2018.
È stato un lavoro lungo, di 22 mesi, in cui principalmente sei chiamato a creare l’ambiente ideale nel quale gestire 12 giocatori e farli sentire parte di un obiettivo comune. Parliamo dei migliori del mondo e quindi il tuo compito è quello di metterli nelle condizioni ideali per esprimersi al meglio. E quando arrivano a quella settimana, dopo aver lottato con tutte le loro energie nei mesi precedenti per ottenere vittorie e risultati importanti nei loro rispettivi circuiti, quello che diventa l’aspetto chiave è cercare di coinvolgerli in qualcosa che va totalmente al di fuori della loro personale routine.
Chiaramente non puoi avere il controllo di come giocheranno, devi invece metterli nelle condizioni di poterlo fare al meglio, li devi coccolare e costruire un’atmosfera nello spogliatoio e nel gruppo in cui tutti si sentano una parte importante del team. Devi essere in grado di costruire una mentalità comune e non più individuale, e farlo su campioni che normalmente sono abituati a pensare solo a sé stessi, non a quello che fa un collega.
Ognuno ha la sua routine, qualcuno pratica senza fine, altri non lo fanno per nulla o poco, alcuni si sono preparati prima, altri lo fanno quella settimana nei giri di prova. Ognuno ha un approccio molto diverso alla Ryder. Metterli insieme significa anche coinvolgere i loro coach, i caddie, i manager e le loro famiglie e con tutti dare vita a un ambiente in cui ognuno dei tuoi giocatori si senta al sicuro, protetto, e che abbia tutto quello di cui ha bisogno per performare al massimo nei tre giorni di gara.
Questo è stato il grande lavoro fatto, creare una vera squadra, un gruppo affiatato tra tutti coloro che ne facevano parte, ognuno per il proprio ruolo. Non abbiamo mai avuto per tutta la settimana di Parigi la minima discussione o incomprensione, tutto è filato liscio e ognuno remava nella stessa direzione. Avevo la sensazione di avere un team molto solido sotto questo aspetto, soprattutto mentale, è da lì che i miei ragazzi hanno costruito il loro straordinario successo.
Che parole hai usato negli spogliatoi prima del tee shot di venerdì mattina e quando avete vinto la coppa?
Io credo nella storia della Ryder e che questa sia in grado di trasmettere a chiunque vesta la maglia europea passione, sentimento, senso di appartenenza. La storia che siamo stati in grado di costruire nel corso degli anni è un’eredità preziosa e importante, e ogni giocatore che entra a far parte di questo team deve aspirare a far parte di quella leggenda da protagonista.
«Questo è il vostro momento» – ho detto prima dei match a Parigi. È giunta l’ora in cui potete scrivere la vostra storia alla Ryder, qualcosa che poi vi seguirà per il resto della vostra vita. Era scritto anche nelle frasi motivazionali che avevamo messo negli spogliatoi: è tempo di diventare leggenda, come chi questa leggenda l’ha creata con le sue gesta in campo. Ora dipende solo da voi e da quello che avete dentro.
Non dobbiamo dimenticare che la Ryder è un grande evento, ricco di passione ed emotività, ma che i giocatori non ne traggono null’altro che la gloria, non ci sono riconoscimenti economici. Se vinci tutto è meraviglioso, ma se perdi, quella passione e sentimento svanisce in fretta, la sconfitta ti si può ritorcere contro al punto tale che non ne vorresti addirittura più fare parte.
Ho sempre detto ai giocatori che la Ryder ha due lati molto diversi: se sei in quello della vittoria, è qualcosa che ti entra dentro, la adori e diventa uno dei ricordi più belli della tua carriera. Ma se sei nel lato perdente, le conseguenze della sconfitta sono incertezza e paura, e per uscire poi da quella situazione devi avere una grande forza mentale che non tutti hanno.
C’è qualcuno che ti ha sorpreso più di altri a Parigi del tuo team?
In realtà no, eravamo sfavoriti sulla carta ma io avevo visto come stavano performando i giocatori e ho capito dai loro sguardi che quello che volevo trasmettergli lo avevano assimilato molto bene.
Francesco Molinari è stato incredibile ma il suo gioco e quello che ha fatto in campo non mi ha sorpreso. È esattamente quello che mi aspettavo da lui, era in grande forma e Le National ha esaltato il suo gioco efficace e preciso.
Chi rispetto al suo momento fece una grande Ryder fu Sergio Garcia, che vinse 3 dei 4 match. Ma Sergio ha la Ryder nel sangue, quando veste quella maglia trova dentro di sé motivazioni uniche e si esalta.
I miei vice capitani poi hanno fatto un lavoro fantastico sul campo. Spesso non gli si dà molto credito ma sono loro che parlano con i giocatori non impiegati nei match dei primi giorni per tranquillizzarli e motivarli.
Chicco è stato eccezionale ma già in passato in Ryder aveva fatto molto bene sia al Celtic Manor nel 2010 che a Medinah nel 2012. È stato una parte essenziale del nostro team, qualcosa di davvero speciale per lui.
Che Ryder ti immagini a Roma?
La Ryder è uno spettacolo planetario, indipendentemente da dove si giochi. I fan provengono da ogni parte del mondo, poi è chiaro che la location può regalare un’atmosfera particolare e rendere ancora più elettrizzante il tutto.
Mi aspetto un ambiente con grande passione perché lo sport in Italia è fatto di passione a tutti i livelli. Siamo a Roma, una delle città più belle e affascinanti del mondo. C’è un’enorme aspettativa ed è naturale che sia così, lo stesso è stato a Parigi, sono sedi uniche. L’entusiasmo italiano sono certo che regalerà ancora più energia positiva al nostro team.
Cosa ne pensi del Marco Simone e delle ultime modifiche al campo?
Con Edoardo Molinari guardiamo molto le statistiche dei giocatori e cosa gli si addice di più in base alle loro performance e caratteristiche. Ovviamente quello che abbiamo cercato di fare è preparare un campo che sia adatto ai nostri giocatori e ne esalti le loro qualità.
Quindici anni fa, quando c’erano meno giocatori europei impegnati sul circuito americano, preparare il campo in maniera diversa da quelli americani era certamente un vantaggio. Oggi molti dei nostri top player europei giocano regolarmente oltre oceano per cui non è più così determinante.
Il Marco Simone è davvero un campo tosto e noi vogliamo che sia così perché siamo abituati a giocare praticamente ogni settimana sul DP World Tour su percorsi molto complicati tecnicamente. E poi adoro dove siamo, la Ryder è praticamente sempre stata disputata tra Stati Uniti e Gran Bretagna per cui vedere questo evento in Europa continentale ha un grande significato e conferma quanto sia cresciuta la sua importanza e considerazione negli ultimi anni. È un’occasione unica per mostrare anche a paesi non golfisticamente evoluti cosa sia il golf, promuovere la bellezza e l’unicità del nostro sport e tutto quello che può portare a un paese in termini di turismo.
La Ryder è uno straordinario strumento di promozione e il fatto che si giochi quest’anno in Italia consentirà anche alle istituzioni di comprendere l’importanza e il peso del nostro movimento. Sarà una fantastica Ryder ne sono certo, sarà un successo assoluto.
Chiudiamo con le sei wild card: metà team lo farete praticamente voi.
Sì, è vero, ma se ci pensiamo bene, 8/9 posti sono già abbastanza definiti. Quindi non ne rimangono poi molti. La scelta delle wild card avverrà tenendo conto dello stato di forma, delle caratteristiche di gioco, di come un giocatore si sposerebbe con gli altri nei match di doppio e, non ultimo, del campo su cui si gioca.
Qualcuno sarà a più agio su questo tipo di percorso, altri meno, e lì sarà basilare che il capitano mixi bene le coppie per bilanciare la prestazione del team. Il giocatore ideale? Deve sapersi calare nell’ambiente della squadra ed essere in grado di performare al meglio su questo tipo di campo. La cosa più difficile per un capitano? Decidere chi gioca e chi invece resta a guardare nei primi due giorni di foursome e fourball. Tre settimane prima della Ryder sveleremo il team Europe, ormai manca poco.