Come ha fatto Scottie Scheffler a diventare un giocatore così dominante? Ce lo racconta Randy Smith, uno dei migliori coach statunitensi, al suo fianco da quando aveva sei anni.
Pochi coach al mondo possono dire di aver lavorato con i loro giocatori dalle elementari fino a vederli vincere un major. Randy Smith lo ha fatto addirittura due volte: la prima con Justin Leonard, la seconda, da oltre 20 anni, con l’uomo del momento, Scottie Scheffler.
I due iniziarono a lavorare insieme quando i genitori di Scheffler si trasferirono dal New Jersey a Dallas e si iscrissero al Royal Oaks Country Club, il circolo dove Smith insegna dal lontano 1977.
Quel talentuoso bambino di 6 anni mise piede nel campo pratica del Royal Oaks nel 2002 e crebbe in un ambiente quasi perfetto per un giovane, mettendo subito in mostra un insaziabile desiderio di apprendimento e una forte attrazione per la competizione.
Smith, uno dei top coach di Golf Digest da più di 25 anni e uno dei primi a entrare a far parte del progetto di insegnamento del magazine più celebre del mondo, nella sua carriera ha ottenuto più riconoscimenti della PGA of America di chiunque altro, ben 18 a oggi.
Nelle prossime pagine ci racconta la vera storia di questo straordinario giocatore da un punto di vista privilegiato, attraverso immagini esclusive recuperate dal suo archivio personale.
Scheffler presta sempre attenzione a ogni dettaglio
Potreste pensare che fosse diverso quando era giovanissimo ma in realtà l’attenzione è una qualità che Scottie Scheffler ha avuto fin dall’inizio. Siamo stati fortunati ad avere molti bravi giocatori al Royal Oaks nel corso degli anni, e fin dal primo giorno in cui arrivò al circolo, Scottie ha sempre avuto una dote, quella di saper interpretare al meglio ogni situazione e capire quando era meglio mantenere le distanze o quando era giusto avvicinarsi un po’ di più per imparare qualcosa dai giocatori del tour.
Quando Scheffler aveva circa dieci anni, seguivo Joel Edwards. Joel aveva vinto sia sul PGA Tour che sul Korn Ferry, e stava lavorando sul wedge dalle medie distanze. Stava concentrandosi sul tocco di palla e sul cambiare le traiettorie nei colpi da circa 78 metri verso un palo di metallo in discesa. Scottie era seduto sull’erba, a gambe incrociate, e ci guardava.
Joel stava andando alla grande. Stava acquistando fiducia nel suo gioco e si percepiva che il suo umore stava iniziando a cambiare in meglio. Dopo qualche colpo, Scottie si avvicinò e gli chiese: “Joel, stai cercando di centrare quel palo?”.
Gli ultimi colpi erano finiti lunghi di mezzo metro, massimo un metro o di poco a destra, comunque fantastici. Colpi da giocatore del tour. Joel gli fa cenno di sì con la testa e Scottie risponse: “Ok”, e si andò a mettere nella parte finale del driving range.
All’inizio non ce ne accorgemmo, ma aveva tirato fuori il suo wedge. Da lì necessitava un colpo pieno e aveva iniziato a puntare anche lui allo stesso palo di Joel. Alla terza palla lo colpì in pieno, risuonò come un gong e noi di colpo alzammo lo sguardo.
Scottie iniziò a ridere, tirò un’altra palla e la mise a mezzo metro. Ne tirò ancora una decina e colpì il palo altre tre volte. Il putt? Stessa cosa. Si metteva sempre vicino al putting green, a guardare mentre lavoravo con Harrison Frazar o con un altro dei ragazzi del tour che allora seguivo.
Un sabato pomeriggio, dopo che io e Harrison avevamo finito, Scottie lo sfidò in una gara di putt. Dopo più di un’ora erano ancora pari. Harrison doveva partire la mattina dopo per un torneo ma Scottie insistette fino a quando Frazar accettò di presentarsi di nuovo la mattina dopo prima di andare all’aeroporto, per finire la sfida.
Per farla breve… Harrison partì per il torneo alle 9 di mattina incavolato nero, perché aveva permesso che un ragazzino lo costringesse a fare un playoff che alla fine aveva pure perso.
Perché è importante questo aneddoto? Perché illustra perfettamente il modo in cui Scottie si è sempre approcciato al gioco fin dall’inizio.
Mentre Scheffler assorbiva ogni aspetto, non si confrontava con altri suoi coetanei ma con un giocatore del Korn Ferry Tour, un vincitore del PGA Tour o con un ragazzo, Justin Leonard, che aveva appena vinto l’Open Championship…
Puoi avere la fortuna di crescere in un ambiente ideale per l’apprendimento e puoi avere un grande talento. Puoi essere completamente aperto all’insegnamento e avere una famiglia che ti supporta.
Ho allenato molti giocatori che hanno finito per fare grandi cose partendo da questo. Quando inizi a parlare di giocatori abbastanza bravi da guadagnarsi da vivere giocando a golf, i fattori che li distinguono diventano sempre di meno.
Ciò che contraddistingue Scottie è il suo fuoco interiore. Non è solo competitività, anche se ne ha più di chiunque abbia mai allenato. È il puro amore per la pratica, la sperimentazione e la voglia di imparare a fare le cose da solo. È la sua determinazione che gli ha permesso di arrivare dove è adesso.
Quando Scheffler inizia a prendere lezioni, usa bastoni per juniores. Scottie tirava così tante palle che spezzò le facce di quei bastoni leggeri, che non erano stati progettati per una pratica così intensa proprio sullo sweet spot.
All’epoca collaboravo con la Cleveland e il loro dipartimento dedicato al tour fece fare una serie completa di ferri per Scottie, ma con piccoli shaft in grafite e con le teste un po’ più leggere, in modo che fossero proporzionate alla lunghezza.
Erano dei veri e propri wedge – un 56° e un 60° – e Scottie era estremamente orgoglioso di quei bastoni.I suoi bastoni raggiungevano a malapena il fondo della sacca quando ha iniziato a giocare nei grandi tornei contro giocatori più grandi di lui.
Scheffler aveva 13 anni l’anno in cui il Texas State Amateur venne giocato al Royal Oaks, ed era in partenza con giocatori universitari che erano un metro più alti di lui, 50 metri più lunghi, e portavano sacche enormi con il logo del college.
Scottie era messo bene, si aggirava tra i primi venti, ma quando arrivò alla 16, un par 3 di 200 metri, odiava l’idea di dover giocare il driver quando i giocatori universitari usavano il ferro 5. Gli dissi che lo avrei seguito da vicino al green e che avrebbe fatto meglio a scegliere il bastone giusto.
Come previsto, gli vidi togliere il cappuccio grande. Ma la buca aveva il vento a favore, quindi Scottie mirò 20 metri a sinistra del green, quasi sopra la linea degli alberi, e fece un enorme slice. Rimbalzò sul bordo del green e rotolò a 3 metri e mezzo dall’asta. Con quel colpo, finì meglio dei ragazzi universitari che giocavano in partenza con lui.
Un carattere determinato per arrivare in vetta
Naturalmente non sempre la colpiva perfettamente e non vinceva ogni torneo che giocava. Ieri come oggi nessuno vuole giocare bene più di Scheffler, e quando era più giovane, il suo carattere a volte aveva la meglio su di lui, anche se non era facile accorgersene, la sua rabbia non era mai diretta a un altro giocatore, ma distruggeva lo spogliatoio se qualcosa non era andato come voleva.
Imparò a incanalare queste reazioni nel desiderio di lavorare su qualsiasi cosa lo deludesse. Diventò per lui benzina positiva, non negativa. Invece di essere umiliato dalla sconfitta, voleva dimostrare che avrebbe potuto fare meglio la volta successiva.È evidente come sia andata a finire nel corso degli anni. È così tranquillo ora quando gioca, il che gli è servito.
Quando sei il giocatore numero uno al mondo i riflettori puntati su di te diventano sempre più luminosi e Scottie stava avendo alcuni problemini con il putt. Ma quello che sembrava un grosso problema per le persone all’esterno era in realtà qualcosa che ha gestito in modo analogo a quando ha avuto un periodo di crisi con il driver quando era al college.
È solo uno di quei periodi negativi che capitano quando giochi a golf. Capisci cosa sta succedendo e fai qualcosa per superare la cosa. E lo spogliatoio stavolta è rimasto intatto…
Da un punto di vista tecnico, Scheffler è oggi così forte per gli stessi motivi per cui lo era quando frequentava il primo anno di liceo, alto un metro e mezzo, e giocava ben oltre qualsiasi aspettativa.
Tutto il suo gioco si basa nel sapere esattamente dove si trova la faccia del bastone in ogni momento. Per quanto riguarda il suo swing, le uniche cose su cui abbiamo lavorato sono state quelle necessarie a mantenere la sensazione di controllare la faccia del bastone.
Non abbiamo sistemato cose che altri pensano siano meno tradizionali. Non avevo alcun desiderio di trasformargli lo swing affinché sembrasse più bello. Il suo movimento lo fa sentire a suo agio. Se lo cambiassi per renderlo conforme alle regole, per così dire, non sarebbe stato per lui così entusiasmante.
Avrei messo un freno alla sua creatività, al suo “Fammi vedere se riesco a giocare questo colpo”. La sua creatività va al di là di qualsiasi cosa abbia mai visto. Ancora oggi può commettere errori nel suo swing, ma quando arriva all’impatto, li corregge sempre.
Quando deve apportare correzioni più di quanto gli piaccia fare, mi fa qualche domanda, ed è mio compito aiutarlo a capire cosa gli serve per ritrovare le sue sensazioni. Al Masters era la posizione della mano sinistra, un piccolo aggiustamento al pollice sinistro in modo che fosse messo meglio sulla mano destra.
Non sembra una cosa rivoluzionaria ma è molto importante avere la spinta a migliorare, il coraggio di chiedere una critica reale e risposte reali e la maturità per impegnarsi a seguire un determinato metodo.
Una carriera piena di successi e di alcuni ostacoli
Se si guarda la carriera di Scottie, più di un centinaio di titoli juniores, tre individuali consecutivi quando era alle superiori, campione juniores amateur statunitense, matricola dell’anno al College, giocatore dell’anno del Korn Ferry Tour e ora vincitore di major, della FedEx Cup della medaglia d’oro alle Olimpiadi e numero uno al mondo, sarebbe facile pensare che sia stato facile.
Ogni giocatore deve affrontare delle avversità e Scottie non è diverso. Ciò che è diverso è il suo approccio nei momenti difficili. Li accetta e li affronta in modo pratico, che siano fisici o fuori dal campo.
Al liceo, la settimana prima di un torneo statale, Scottie si slogò la caviglia giocando a basket e dovette indossare uno scarpone ortopedico. La maggior parte dei giocatori si sarebbe ritirata. Invece lui il giorno dopo aver messo lo stivale era in campo pratica, a dire: “Ok, come faccio a fare un colpo con questo coso?”
Capimmo come tirare un drive tenendo il peso sul piede destro, e lui camminò e portò la sacca, riuscendo a vincere il torneo. Al College colpì un cespuglio durante uno scatto d’ira e una spina gli si piantò nel pollice, fino all’osso.
I medici dissero che sarebbe stato necessario un intervento chirurgico per rimuoverla. Lui continuò a giocare con la spina nel dito. Gli allenatori continuavano a portargli sacchetti di ghiaccio e lui continuava a effettuare colpi fantastici.
La maggior parte della sua carriera universitaria l’ha passata affrontando vari infortuni fastidiosi e le conseguenze della sua crescita di mezzo metro in altezza in pochi anni.
Il miglior giro che gli abbia mai visto fare, e di ottimi giri ne ha fatti parecchi, è stato al PGA Championship di quest’anno. Lo stavo aspettando in campo pratica quel venerdì mattina, il giorno del folle arresto da parte della polizia all’alba, e avevamo solo 53 minuti per prepararci prima del tee time.
Gli dissi che era tutta una questione di testa e che lui sapeva come gestirla, e così fece. Giocare usando l’adrenalina e sfruttando le avversità, per alimentare il suo fuoco competitivo e fare 66? Sono orgoglioso di come ha giocato quel giorno e, cosa più importante, di come ha gestito tutto quanto.
Ha capito cosa stava succedendo e ha apprezzato le persone che stavano cercando di aiutarlo. Il ragazzo che avete visto parlare al termine di quel giro su quanto accaduto con la polizia è l’esempio perfetto di chi è Scottie Scheffler. Un ragazzo che è sempre se stesso, indipendentemente dalla situazione che ha di fronte.