Seguo Francesco Molinari nel primo giro di giovedì dalla 9 alla 18. Faccio lo stesso oggi, ma questa volta dalla 1 alla 11. Il tempo per realizzare quanto sia emozionante poter tifare e incoraggiare il nostro portabandiera da pochi metri in un palcoscenico come quello di Augusta e in una giornata storica per il golf italiano.
Per una volta me ne frego del fatto che le telecamere non lo inquadrino mai, nonostante tanti tornei vinti negli ultimi undici mesi, con la ciliegina sulla torta dell’Open Championship.
Questa volta sono qui, a pochi metri da lui, e posso vivere insieme alle migliaia di persone che lo seguono ogni singolo istante di questo giro eccezionale. Chiude in 67 di giornata e diventa leader in club house con un -7 che ormai non mi stupisce più. Francesco Molinari è ormai una star mondiale, un top player assoluto, un fenomeno che si è costruito nel tempo con sacrifici, metodo e dedizione.
Ci comunicano in sala stampa che sarebbe arrivato per la tradizionale conferenza; mi fiondo subito nella “interview room”, ansioso di poter fare qualche domanda e assaporare ancora le sue emozioni a caldo di questa storica giornata.
Mi metto nelle prime file (sarebbe stata felice la mia prof di francese che diceva sempre che mi nascondevo per paura di un‘interrogazione). Questa volta non ho timore né paura, solo una voglia matta di ascoltare ogni singola parola di Francesco.
Il mediatore inizia ricordando una battuta fatta da Molinari due giorni fa, il quale affermava di non essere più uno “Spring Chicken”, come si dice da queste parti, ovvero un novellino, chiedendogli poi le sue sensazioni a caldo post giro.
I punti salienti della sua incredibile giornata sono stati i due putt di recupero ai due par 3 delle prime nove, ovviamente insieme ai birdie della 3, 8 e 9.
“Sono contento di come ha gestito la gara oggi e di non essere mai finito in pericolo”. Poche parole ma l’esatta sintesi delle sue straordinarie 18 buche che lo hanno lanciato in cima alla classifica del Masters, la prima volta in assoluto per un italiano al Masters in 83 edizioni.
Un giornalista gli chiede poi di raccontare la sua prima esperienza ad Augusta come caddie del fratello Edoardo nel 2006, e se avesse mai pensato di arrivare a giocare un giorno a questi livelli.
Francesco, sorridendo, risponde subito che si sentiva lontano anni luce da questo golf, svelando inoltre di aver sofferto non poco di trovarsi al Masters quella volta soltanto in versione caddie.
“Hai imparato molto sul campo da quella esperienza? “Direi di no – risponde – visto che con mio fratello eravamo spesso nei boschi o ci ritrovavamo con putt ingiocabili…”.
Un’altra giornalista gli chiede quali siano stati i cambiamenti sul suo gioco corto e in particolare sul putt, che gli hanno permesso di evolversi cosi tanto su questi green, notoriamente difficili.
Sempre sorridendo, Chicco racconta le modifiche avvenute con il suo coach Phil Kenyon: posizione del corpo meno dritta e rigida, traiettoria del bastone non più dentro-fuori ma neutral e un putter che ora ha il “dot” e non più la linea sulla faccia.
Si esauriscono le domande, prendo coraggio e chiedo al nostro beniamino se avesse sentito un “turning point’ nella sua testa. Mi spiega che un click è arrivato ieri pomeriggio, dopo che non aveva tirato bei colpi nelle prime 11 buche, continuando comunque con la stessa metodologia e routine, in attesa della svolta.
Finisce la conferenza stampa, e inizio a capire come fare un selfie con Francesco senza rischiare l’ergastolo.
Mi metto fuori dall’uscita del media center, riservata ai giocatori, ma una guardia, con fare non molto simpatico, mi chiede chi sono e perché mi trovo li. Mancava soltanto volesse vedere le mie analisi del sangue e i valori del colesterolo.
Mi sposto di qualche metro e finalmente riesco a fare la foto con Chicco, il quale, come al solito, si è dimostrato più che disponibile, insieme al suo manager.
Rientro in sala stampa ma dentro di me sento che quel poliziotto si riaffaccerà nella mia vita.
Trionfante di selfie e intervista, inizio a preparare il mio pezzo quando il mio “amico” della security, insieme a un collega, mi chiede di seguirlo e mentre ci incamminiamo verso gli uffici, in malo modo, uno dei due mi sfila il badge stampa dal suo involucro legato alla cordicella.
Capisco che mi si sta per chiudere la vena ma resto abbastanza lucido per spiegare al manager responsabile quello che era successo, chiarendo che prima di essere “stampa” sono un amico del leader in club house del Masters e che non sapevo di questa regola che prevede che anche i giornalisti stiano almeno a cinquanta metri dai giocatori.
Con il capo cosparso di cenere chiarisco la situazione e con una stretta di mano mi congedo dall’ufficio del comitato media. Risalgo le scale per riprendere il mio articolo, e rifletto su un certezza: ”Per Chicco sarei stato pronto a tutto…”.