Il cambio di approccio nel gioco e nella vita è il primo passo per migliorarsi. Un percorso, quello intrapreso dal talento veronese, che lo ha riportato ai vertici del golf mondiale.

Il tempo vola ma sembra ieri quando, con Matteo Manassero, facevamo il punto della situazione al via della stagione appena conclusa.

Visto che aveva appena riconquistato la carta per il DP World Tour e che consideravo il suo ritorno tra “i grandi” un punto di approdo, ricordo che avrei voluto parlare con lui di quanto vissuto in passato, dei motivi della sua rinascita e di come si sentiva ora che finalmente era “tornato”.

Riflettendo ora, a meno di 12 mesi di distanza, la sua risposta mi è più chiara: “Andrea, non vorrei soffermarmi troppo su quanto successo in passato ma su come sono ora e come potrei essere domani, visto che sono nel pieno di un percorso di crescita”.

Non aveva obiettivi particolari, nulla da raggiungere a ogni costo. Oggi, richiacchierando con lui, ho finalmente capito cosa volesse dire. Vi racconto com’è andata.

Non focalizziamoci sul passato, però ammetterai che una svolta c’è stata. Sei passato dall’alzare il trofeo del BMW PGA Championship a giocare sull’ALPS Tour. Ora vai in America. Quali sono le componenti che hanno contribuito maggiormente alla tua rinascita?

“Logicamente ci sono state un sacco di situazioni che mi hanno portato al miglioramento. Alcuni aspetti tecnici e altri psicologici.

Il percorso mentale è stato un fattore importante per innestare il processo di miglioramento. Sicuramente prendere consapevolezza ha permesso l’inizio del cambiamento.

Il lavoro fatto durante il periodo del Covid ha avuto un peso importante, così come l’inizio della collaborazione con Søren Hansen.

Sono tutti elementi correlati e avvenuti con calma, senza voler precorrere i tempi o bruciare le tappe.

Sono iniziati ad arrivare i primi risultati e mi hanno dato la sensazione di essere competitivo. Ho preso parte alle gare quindi con la certezza che stavo facendo cose buone.

Dalle prime volte ‘in contention’ le scelte sono state più semplici da prendere e mi hanno fatto vedere il cammino giusto”.

Hai iniziato a collaborare con Alessandra Averna. Cosa pensava di te e su cosa avete lavorato?

“Alessandra, come le persone che avevano fatto parte del mio staff in precedenza, aveva in testa un’immagine diversa rispetto a quella che avevo io.

In passato avevo già conquistato delle vittorie, anche importanti. Così, tutti hanno sempre visto il mio potenziale. Io invece avevo perso fiducia nei risultati e nel gioco.

Quelle che non sono mai mancate sono state la mia dedizione, la voglia di lavorare e la serietà, basi fondamentali per qualsiasi miglioramento.

Alessandra ha distolto la mia focalizzazione maniacale sul risultato facendola virare verso il processo di miglioramento.

È stato sicuramente un fattore fondamentale, in quel momento come oggi”.

Quali pensieri ti accompagnavo quando scendevi in campo prima del vostro incontro? 

“Ero orientato sul risultato e poco sul processo di miglioramento. Avevo un po’ di confusione su cosa mi stesse succedendo, mischiavo problemi di attitudine ad altri tecnici.

Li mettevo in un unico calderone. Ho elaborato, metabolizzato e ho preso consapevolezza maturando e conoscendo quello che stavo attraversando.

L’obiettivo non è più stato il risultato, tornare in alto, vincere… Con Alessandra abbiamo tolto questi schemi mentali che avevo e da lì è iniziato un miglioramento fisico e tecnico”.

Beh, un cambiamento tutt’altro che banale o semplice. Quest’anno peraltro avresti potuto essere anche orientato sul risultato! A inizio anno mi hai detto che il lavoro fatto era per essere competitivo e il Tour americano un qualcosa che, eventualmente, sarebbe arrivato più avanti in carriera. Beh, una vittoria, 12° nella Race to Dubai e la carta del PGA Tour. Ma che stagione è stata?

“Al di sopra delle aspettative! Ho avuto un sacco di soddisfazioni in poco tempo. La stagione è lunga ma, riguardando indietro, è volata.

Effettivamente sembrano pochi giorni da quando parlavamo prima del via. All’inizio, come ti dissi, non potevo pretendere di avere obiettivi definiti.

Non è nel mio modo di affrontare le cose. Come detto cerco di migliorare colpo dopo colpo e il golf ti sblocca delle cose, positive e negative. Quest’anno sono state tante quelle positive, che però mi sono guadagnato”.

Quindi scendi in campo dove hai giocato bene o male ma non porti con te il ricordo? Non fai conti prima, neanche in gara?

“Il mio approccio è quello di vedere cosa succede in un processo di miglioramento a lungo termine. Poi gli obiettivi cambiano con i risultati.

Dopo la vittoria vuoi essere in contention più spesso per rivivere le sensazioni che ti dà l’essere in corsa per il titolo.

Dopo la vittoria nel Jonsson Workwear Open in Sudafrica a marzo ho iniziato a pensare alla partecipazione ai major, poi alle Olimpiadi e via discorrendo.

L’evoluzione è come una palla di neve che cresce, o diminuisce, con le varie situazioni che accadono. Vai a premio e aggiungi un tassello, fai una top ten e ne metti un altro.

Poi magari non passi il taglio e serve un momento di gestione. Se succede di non raggiungere un risultato sono deluso e arrabbiato, ma so che con il team a supporto si analizza, si metabolizza e si lavora sul prossimo step.

La delusione c’è ma ora la metabolizzo e la metto da parte, mentre prima la portavo con me”.

È sicuramente una condizione mentale invidiabile. Mi viene in mente Scottie Scheffler e il suo shank dal bunker nel giro finale del Tour Championship. Come se nulla fosse, è andato sulla palla, ha approcciato mettendola data. Bogey e poi tre birdie nelle successive tre buche. Nel suo caso il tutto si riconduce alla fede in Dio. Lui pensa che qualsiasi cosa gli accada fa parte di un grande disegno che non dipende solo dalla sua volontà.

“La situazione nella quale si trova Scottie è ideale. Se riesci a essere uno spettatore delle cose che accadono vivi in maniera più bilanciata.

Nel golf non puoi forzare nulla. Le cose non accadono perché ci provi di più. Essere bilanciato come lui è vincente. Però, non tutti siamo uguali, per lui va bene così.

Poi ci sono giocatori che hanno bisogno della rabbia per performare al meglio. Quello che è chiaro è come il gioco da solo sia importante ma a quei livelli non basta.

Pensate solamente a dover sopportare l’aspettativa che lo accompagna ogni volta che scende in campo. Al suo livello tutti si aspettano che vinca sempre.

Un po’ come Sinner, prendendo in prestito un grandissimo di un altro sport”.

Ora ci saranno delle aspettative anche su di te. Sai che i tifosi fanno presto ad esultare per poi aspettarsi dei risultati e criticare se questi tardano. Lo vediamo in tanti altri sport, peraltro visto che condividiamo il tifo calcistico sai bene di quello di cui sto parlando. Restando nel golf, penso ad esempio a Francesco Molinari, che sta attraversando un periodo non idilliaco e viene spesso criticato dimenticando che gioca sul PGA Tour e che ha vinto un major. Come vivi l’aspettativa dei tifosi, l’avverti?

“In questo momento è un aspetto abbastanza marginale. Non mi faccio stressare particolarmente da quello che si attende da me la gente. Il tifo fa sempre piacere”.

Immagino che in questo periodo peraltro sia stato particolarmente piacevole. Quale dei tanti messaggi hai particolarmente apprezzato?

“La chiamata di Luke Donald mi ha fatto molto piacere, così come i tanti messaggi di affetto che ricevo sempre, anche se quando faccio un buon giro sono molti di più!”.

Come pensi che vivrai l’approdo sul PGA Tour dove il field dei tornei è qualitativamente più elevato?

“Cercare di migliorarmi non dipende dal tour, dal field o dai campi. So che se gioco bene sono competitivo sempre.

Non devo migliorare perché cambia il contesto ma per me stesso. Sono i singoli aspetti che compongono il gioco nei quali ho la consapevolezza che devo crescere giro dopo giro.

Questo significa mettere due palle in fairway in più a round e migliorare l’efficacia sul putt. In questi miglioramenti c’è una componente tecnica, una mentale, una fisica e molto altro”.

E invece, sotto l’aspetto organizzativo, che stagione sarà? Sarai fisso negli States o farai avanti indietro? In fondo è un cambiamento di sede di lavoro e di vita.

“Inizialmente farò base qui in Italia. È la prima stagione piena sul circuito americano, in passato ho fatto solo qualche gara.

Nella prima parte, sino ad aprile, giocando sul PGA Tour si viaggia grossomodo come prendendo parte al DP World Tour, quindi cambierà poco.

Inizialmente farò avanti indietro e mia moglie Francesca verrà con me. Con il passare delle settimane capirò quanto mi stanca viaggiare e smaltire i fusi orari.

Sino ai playoff sarò focalizzato quasi al 100% sugli USA, cercando di cogliere qualsiasi possibilità. In Europa giocherò più avanti nel corso dell’anno”.

Poi il 2025 sarà anno di Ryder Cup. È vero che non ti poni obiettivi troppo vincolanti, ma ci pensi, specie ora che prenderai parte alla Team Cup?

“La Ryder Cup è il coronamento di una carriera. Non può diventare un obiettivo ma nella testa l’idea di prendervi parte ci può stare di nuovo.

Credo di avere la mentalità per cercare di fare il meglio possibile per migliorare e sono consapevole della difficoltà che richiede riuscire a entrarci.

Ryder o major? Per fortuna non devo scegliere ma uno porta all’altro. Diciamo vincere un major per entrare in Ryder!”.

Tu hai iniziato a giocare da bambino, folgorato dalla passione. Hai fatto tutte le trafile dell’attività giovanile dilettantistica anche se poi hai bruciato le tappe. Mi rendo conto che vivere il nostro mondo da giocatore di tour sia molto lontano dal giocatore di circolo. Come vedi il golf italiano?

“Il 2024 è stato un anno nel quale è venuta a mancare una figura importante.

Ero piccolo per ricordarmi quando venne eletto, ma Franco Chimenti ha portato il nostro sport a un livello di conoscenza internazionale molto alto.

Adesso bisogna cercare di mantenere la parola golf legata a quella Italia, aspetto non facile. A livello agonistico, se osserviamo i risultati c’è un po’ di ricambio.

Gregorio De Leo che ha preso la carta per il DP World Tour ne è la più fresca testimonianza. Bisogna cercare di rinfoltire un po’ la base per far sì che il golf resti dov’è.

Penso che la parola giusta per continuare ad andare bene sia coesione. Il vantaggio di un mondo piccolo come il nostro è poter remare nella stessa direzione, aspetto che può fare la differenza.

Ci sono giocatori bravi e continueranno a nascerne di nuovi. Possiamo guardare l’esempio della Danimarca nella consapevolezza però che sia difficile emularla.

Ci vuole la buona volontà da parte di tutti, con compiti definiti e un gran lavoro  per crescere nei differenti ambiti legati al mondo del golf.

Serve quindi pazienza, tanto impegno e soprattutto coesione in tutti gli attiri che operano nella filiera”.