Nato all’ombra del Colosseo e dei Fori Imperiali, capello biondo e accento romano con la battuta sempre pronta. Questo è il colpo d’occhio quando ci si trova davanti a Leonardo Fioravanti, il primo surfista italiano a qualificarsi per le Olimpiadi, prima di Tokyo nel 2020 poi di Parigi del prossimo anno. E a sentirlo parlare Leonardo, cittadino del mondo, sembra essere nato apposta per la gara a Cinque Cerchi.
Una vita sempre sulla cresta dell’onda fin dalla giovanissima età.
Nel 2015 si è laureato Campione del Mondo Under 18 a pochi mesi da un grave incidente in cui ha rischiato di rimanere paralizzato, nel 2017 è diventato il primo italiano a partecipare in pianta stabile alla World Surf League e nel 2020, dopo una stagione condizionata dalla lussazione di una spalla, ha vinto il Sydney Surf Pro, il suo successo più importante che gli ha aperto le porte delle Olimpiadi di Tokyo 2020, dove il surf è diventato disciplina olimpica per la prima volta.
Oggi, il 25enne ha già staccato il biglietto per Parigi 2024 ma, nel frattempo, prima di cavalcare l’onda perfetta, c’è stato spazio anche per un drive in centro fairway in occasione nientemeno che della 44esima edizione di Ryder Cup.
Al Marco Simone hai giocato l’All Star Match con grandi campioni dello sport e con un capitano d’eccezione, Colin Montgomerie. Come hai vissuto quest’esperienza diversa dal solito?
Ammetto che sul tee della 1 la tensione era ai massimi livelli, molto più che sulla tavola da serf perché quando sono in acqua ho sempre la situazione sotto controllo, mentre con i driver in mano, con tutta la gente sulle tribune a urlare il tuo nome e con le stelle dello sport mondiale che ti guardano, decisamente no. Ma nonostante questo non me lo sono cavata male anche se ho cercato di fare il più in fretta possibile così da andare subito al colpo successivo.
Cosa si porta a casa uno sportivo del tuo calibro da una manifestazione come quella della Ryder Cup?
Seguire Viktor Hovland e Ludvig Aberg venerdì mattina nei foursome è stato spettacolare. Stare vicino a loro, studiare le loro routine e il loro atteggiamento in campo mi ha insegnato molto e, soprattutto, mi hanno motivato tantissimo nel mettere tutto me stesso nel mio sport e portare alto il nome dell’Italia e dell’Europa nel mondo.
A quanti anni hai messo il primo piede sulla tavola da surf?
La prima onda è stata a sei anni a Marina di Cerveteri, a nord-ovest di Roma, con mio fratello e da lì è iniziata la passione.
Nello sport professionistico si è sempre con la valigia in mano, ti è mai pesato questo tuo continuo spostarti da una parte all’altra del globo?
No, anche perché essendo di Roma ho dovuto iniziare a viaggiare fin da piccolo altrimenti non sarebbe stato possibile arrivare ad alti livelli. Ormai sono abituato ad avere sempre la valigia in mano e anche se amo stare a casa in famiglia sono un cittadino del mondo.
Hai già staccato il biglietto per Parigi 2024. Cosa vuol dire partecipare a un’Olimpiade e quanto lavoro c’è dietro questo evento?
Gareggiare ai Giochi Olimpici rappresenta un sogno per qualsiasi atleta. Quella di Parigi sarà la mia seconda partecipazione e sarò sicuramente più consapevole su quello che dovrò fare e che approccio mentale avere. In una gara come questa hai massimo un arco di tempo di sette/dieci giorni nei quali dare tutto te stesso e la preparazione atletica sarà di fondamentale importanza. Ora iniziano gli allenamenti seri a Tahiti così da arrivare pronto al 100%.
Hai mai avuto paura o pensato di smettere magari dopo un brutto infortunio?
Ovviamente quando sali su una tavola il timore degli infortuni ci sono e nel 2015 ne ho subìto uno molto grave per il quale sono stato sottoposto a due operazioni alla schiena. Ma nonostante il dolore non ho mai pensato di smettere anzi, avevo paura di non poter tornare ai livelli prima dell’incidente. Invece dopo appena otto mesi ho vinto il Campionato del Mondo Under 18 e da lì non mi sono più fermato. Questi episodi non mi buttano a terra ma, se possibile, mi rendono ancora più forte.
Mentalmente quanto è diverso surfare alle Olimpiadi rispetto in un’altra competizione?
Sinceramente lo trovo uguale, nel mondo del serf abbiamo avuto una sola Olimpiade, quella del 2020, e trovo che l’atteggiamento debba essere sempre lo stesso, l’impegno e la voglia di fare bene non cambiano rispetto ad altre gare e la preparazione fisica e mentale è identica. Poi, ovvio, vincere una medaglia nei Cinque Cerchi è la massima aspirazione per ogni atleta e raggiungerla è il mio obiettivo finale.
Sei il nuovo ambassador K-way, che rapporto hai con questo tuo nuovo ruolo?
Mi è stata data una grande opportunità che ho intenzione di sfruttare e onorare al meglio. Conosco molto bene il brand e la proprietà, Lorenzo e Alessandro Boglione, due bellissime persone, professionalmente e umanamente parlando e sono certo che insieme faremo grandi cose. Avere il supporto di un brand italiano è molto importante per me e sono orgoglioso di portare il Made in Italy in ogni parte del mondo. E poi parliamo dei materiali che sembrano fatti apposta per il serf.
Qual è il tuo capo preferito?
Non voglio sembrare banale ma in assoluto il k-way, leggero, versatile e adatto per ogni spostamento. Al mare il clima cambia repentinamente e avere un capo del genere è fondamentale. Nei miei spostamenti cerco sempre di viaggiare con la valigia il più leggera possibile e il k-way anche in questo caso è perfetto anche perché calcola che parto sempre con 14 tavole e viaggiare comodi diventa quindi fondamentale.
Tante passioni anche fuori dall’acqua, ce le racconti?
Amo il tennis e soprattutto amo il golf. Gioco un buon 11 di handicap, diciamo che me la cavo anche se mi piacerebbe abbassarmi. Al momento è impossibile praticarlo, è uno sport che richiede davvero tanto tempo ma chiusa la mia carriera sicuramente nel mio futuro driver e putter saranno all’ordine del giorno.
Come ti sei avvicinato al golf?
Ho iniziato all’età di 12 anni grazie al compagno di mia mamma che mi ha sempre portato con sé. Ho da subito amato questo sport che ti permette di giocare in qualsiasi parte del mondo e in contesti unici. E quando c’è il mare piatto o ho un momento libero vado subito a farmi 18 buche.
È più difficile cavalcare un’onda o imbucare un putt di due metri in discesa?
Nel mio caso assolutamente il putt ma per una persona “normale” credo sia più difficile salire su una tavola da serf. E questo perché l’aspetto più assurdo del golf, che poi è la sua bellezza, è che in una partita io 11 di hcp possa vincere almeno una buca contro Rory McIlroy mentre nel serf è praticamente impossibile che un dilettante batta un professionista. Questa è la magia del golf, tutto può succedere da un momento all’altro.