La carriera di Jon Rahm, a soli 25 anni, è una parabola ascendente che pare non avere al momento punti di flessione.
Nel 2016 lo spagnolo fa il suo ingresso sul palcoscenico mondiale quando vince a Oakmont la medaglia come miglior amateur dello U.S. Open, chiudendo il torneo addirittura al 23° posto.
Passa professionista subito dopo e arriva tra i primi cinque del World Ranking in sole 61 settimane (solo Tiger Woods nella storia è riuscito a fare meglio, 33 settimane) e impiega meno di due anni a diventare il numero 2.
A oggi ha già vinto dieci tornei a livello internazionale, tre sul PGA Tour e sei nell’European Tour, accumulando oltre 25 milioni di dollari di guadagni.
Con tre piazzamenti tra i primi quattro classificati nei suoi otto major fino ad ora giocati, l’unica questione rimasta ancora aperta sembra essere solo quando lo spagnolo riuscirà finalmente a vincerne uno.
L’ascesa golfistica di Rahm non è stata però senza ombre: il suo carattere irascibile lo ha a volte ostacolato.
Celebri rimangono le sue continue esternazioni durante lo U.S. Open del 2017 a Erin Hills, culminate con una serie di calci al wedge e addirittura un pugno a un cartellone di un battitore.
Coloro che conosce personalmente Jon però assicurano che la sua personalità fuori dal campo è completamente diversa.
È affabile – competitivo sì, ma alla mano – e alla sua prima Ryder Cup nel 2018 a Parigi si è dimostrato un perfetto compagno di squadra.
Arriva a Phoenix per la nostra intervista a bordo della sua luccicante Mercedes-Benz AMG G 63 color granata con targa Arizona.
Ha ancora l’aspetto di un ragazzino, è educato, si porta i bastoni da solo ed è puntuale.
Nei suoi occhi brillano per intensità, quel fuoco dell’animo latino che nasconde sotto un’apparente calma, e inizia a confidarsi tra vita privata, sogni e speranze future.
Il 2019 resterà un anno indimenticabile: hai vinto la Race to Dubai, primo spagnolo dopo Severiano Ballesteros a riuscirci, e ti sei sposato con la tua fidanzata storica, Kelley Cahill, incontrata ai tempi dell’Arizona State University. Ci racconti il vostro primo appuntamento?
Non avevo soldi, campavo con duecento dollari al mese, e quindi avevo un budget molto limitato.
Siamo andati in un locale di Phoenix chiamato Zendejas perché lei amava i loro margarita, entrambi adoriamo mangiare e non era particolarmente costoso.
Prima di innamorarti del golf hai praticato diversi sport, in particolare il calcio nel ruolo del portiere e addirittura il Kung Fu. Dove nasce l’interesse per quest’ultimo?
Me lo ha trasmesso mia madre, che faceva Tai Chi. Queste discipline mi hanno sempre affascinato molto. Non lo faccio da un po’ di tempo ma lo adoro.
C’è qualche aspetto o valore del Kung Fu che ritrovi anche nel golf?
Il rispetto reciproco. Da ragazzo litigavo spesso così mia madre mi spinse a farlo per imparare a difendermi e per capire che combattere dev’essere l’ultima risorsa. Imparare l’arte del Kung Fu mi ha aiutato molto a livello mentale, mi ha insegnato ad avere rispetto nei confronti degli altri, un insegnamento che ho applicato anche nel golf. Posso arrabbiarmi con me stesso, quello sì, ma cerco sempre di essere rispettoso nei confronti dei miei compagni di gioco e di essere cortese sia in caso di vittoria che di sconfitta, accettando il risultato del campo.
Sei noto per essere un giocatore che esterna parecchio le sue emozioni in campo. È una caratteristica che ti contraddistingue anche quando pratichi altri sport o solo quando si tratta della tua professione?
Io sono sempre me stesso, non importa quale sport stia praticando. Odio perdere e amo il gusto della vittoria. Sono molto esigente con me stesso il che mi porta a essere piuttosto emotivo nelle reazioni. In parte credo che si tratti anche di immaturità, ne sono sempre più consapevole e mi sto rendendo conto che a volte sembro uno sciocco quando reagisco in malo modo. Non ne vado certamente fiero di alcune scenate che ho fatto sul campo in questi anni ma allo stesso tempo dico che erano figlie di quel determinato momento. A volte sono così concentrato che mi dimentico di avere le telecamere puntate addosso. Mi considero un ragazzo maturo per la mia età mentre il mio gioco, sotto questo aspetto, deve ancora migliorare molto. Non mi piace ma non posso nemmeno fingere di essere perfetto.
Sportivamente parlando, aiuta a tuo avviso ogni tanto arrabbiarsi in campo?
Sì certo, ma è determinante il modo in cui sfoghi la tua rabbia. Non c’è niente di male nell’arrabbiarsi, tutti lo fanno. Tom Brady, quarterback dei New England Patriots e leggenda del football americano, si infuria parecchio in campo, Michael Jordan non era certo da meno. Lo fa Tiger Woods come Leo Messi. Quello che conta è come manifesti questa rabbia ed è quello su cui io ho dovuto lavorare: c’è una linea sottile tra il reprimere le proprie emozioni ed elaborarle.
Al momento sei numero due del mondo dietro solo a Rory McIlroy ma davanti a gente del calibro di Brooks Koepka, Justin Thomas, Dustin Johnson e Tiger Woods. C’è qualche aspetto del loro gioco che vorresti avere?
Mi piacerebbe giocare i ferri come Tiger: è di gran lunga il migliore che abbia mai visto. Di Brooks e DJ mi piacerebbe avere la stessa lunghezza. Io non sono corto ma loro sono di un altro livello ed entrambi appaiono molto calmi in campo, sanno gestire le proprie reazioni, io un po’ meno… [Ride.]
Quale parte del tuo gioco credi invece che loro vorrebbero rubarti?
Forse la precisione dal tee. Penso però di sapere cosa risponderebbe Koepka: assolutamente niente. Lui sa fare già tutto. Tiger probabilmente direbbe che ama il fatto che non penso troppo a un colpo. Dustin e io siamo simili in questo: DJ mi ha detto che dimentica il colpo subito dopo averlo effettuato. Io invece mi ricordo ogni dettaglio ma ho imparato a non pensarci più appena inizio la routine per quello successivo.
Ti consideri più un giocatore di puro feeling e istinto o tecnico?
Al cento per cento di feeling. Il colpo lo devo sentire, ho bisogno di visualizzarlo nella mia mente. Se non lo sento non riesco a colpire la palla. Per questo vedo il mio coach tecnico (Eduardo Celles) in Spagna solo poche volte l’anno. E anche quando ci vado di solito è solo per un controllo.
A Parigi, nella tua prima Ryder Cup nel 2018, hai battuto 2&1 Tiger Woods nei singoli. Cosa ti ricordi di quell’esperienza?
Davvero unica. Era la mia prima Ryder ed ero entusiasta. Persi entrambi i doppi perché stavo giocando male e non mi sentivo al meglio ma la squadra stava vincendo quindi ero al settimo cielo. Poi uscirono gli abbinamenti dei singoli della domenica e mi resi conto che avrei dovuto sfidare Tiger. Non aveva ancora fatto un punto ma non stava giocando male. Se l’era dovuta vedere con Francesco Molinari e Tommy Fleetwood, e chiunque avrebbe perso contro di loro quella settimana. Capitan Bjorn mi disse che dovevo batterlo facendo il suo stesso gioco: Tiger non avrebbe fatto errori, avrebbe semplicemente sfruttato i miei, quindi non dovevo dargli la possibilità di farlo. Fino a quel momento di errori ne avevo commessi parecchi e quindi decisi di provare a giocare come se non avessi Tiger Woods di fronte a me. Non so come ma ci sono riuscito, giocando un golf praticamente perfetto. Poi tutta la mia emozione venne fuori quando sbagliai un corto putt alla 16 e il mio vantaggio scese a 1 up. Mi dissi che avrei vinto il match lo stesso: feci un bellissimo drive alla 17, un ottimo secondo a un metro e mezzo dalla buca e imbucai il putt decisivo. Poi liberai tutto quello che mi ero tenuto dentro quel giorno, una gioia incontenibile.
Che tipo di giocatore pensi che sarai a 40 anni?
Francamente non ne ho idea ma certamente non sarò il prossimo Seve, sarò semplicemente Jon Rahm. Forse sono più simile a lui come personalità rispetto ad altri giocatori spagnoli ma lui era e rimane unico. Essere carismatici come lo era lui e riuscire a fare quanto ha fatto Ballesteros per il gioco del golf sarebbe fantastico ma non è immaginabile. Prendi Arnold Palmer, per esempio: non ci sarà mai un altro Arnold Palmer. Dovremmo aspettare cento, forse duecento anni per avere qualcuno simile e lo stesso vale per Severiano.
Sei arrivato terzo allo U.S. Open dello scorso anno e quarto al Masters e al PGA Championship nel 2018. Cosa ti manca per vincere il tuo primo major e in quale dei quattro ritieni di avere maggiori possibilità?
Sono consapevole che il mio gioco è abbastanza solido per vincerne uno, si tratta solo di farlo e rompere il ghiaccio. Sono andato vicino ad Augusta un paio di volte, mi piace molto il percorso e si adatta al mio gioco. Ma da spagnolo ed europeo dico che l’Open Championship rimane il massimo: è il simbolo del golf per eccellenza, e la Claret Jug la coppa che ogni golfista sogna di sollevare. Probabilmente il Masters rimane quello dove ho più possibilità ma se il primo arrivasse altrove di certo questa volta non mi arrabbierei più di tanto…