La motivazione per un atleta, soprattutto nei grandi palcoscenici mondiali, è qualcosa che viene da sé. Per i golfisti i major non hanno bisogno di preparazioni particolari a livello mentale. Masters, U.S. Open, Open Championship e persino il PGA Championship potrebbero essere tranquillamente giocati su campi senza copertura televisiva e premi in denaro e comunque i top player verserebbero sangue per avere la possibilità di competere per una vittoria simile.

Ma le Olimpiadi per il golf non sono ancora a questo livello. Quando il nostro sport è stato reintegrato nei Giochi, a Rio de Janeiro nel 2016, all’inizio serpeggiava una sorta di adesione a malincuore, quasi fosse un obbligo, e nella migliore delle ipotesi in alcuni giocatori c’era un filo di curiosità sull’evento. In questa terza apparizione consecutiva del golf alle Olimpiadi sembra invece che qualcosa stia effettivamente cambiando.

Quello che le Olimpiadi sembra che stiano trasmettendo ai migliori golfisti del mondo è un lato a loro sconosciuto , ovvero l’indelebile dolore del fallimento. Sono le esperienze di altri atleti, non dei golfisti, a far capire quanto le Olimpiadi potrebbero diventare importanti anche per il nostro sport.

Molti dei golfisti in gara a Parigi hanno trascorso tempo nel Villaggio Olimpico, condiviso momenti con altri atleti di differenti discipline e vissuto la cerimonia di inaugurazione insieme, come una vera squadra.

Alcuni (come lo svedese Alex Noren) sono persino andati in palestra con altri atleti e hanno dispensato consigli a chi raccontava di giocare a golf nel tempo libero. Questa consapevolezza condivisa dell’eccellenza è una spinta motivazionale enorme, ma l’effetto più potente è stato per i golfisti osservare i loro colleghi di altre discipline in azione per una medaglia, e non solo quando vincevano. Il dolore delle sconfitte è in primo piano alle Olimpiadi quanto la gioia per le vittorie.

Forse la rivelazione più significativa è arrivata da un veterano del PGA Tour, l’australiano Jason Day. Nel 2016 decise di non partecipare nonostante fosse il numero 1 del mondo all’epoca, ufficialmente per il virus della Zika. A otto anni di distanza, dopo aver saltato anche Tokyo 2021, Day si è guadagnato il posto nella squadra australiana e si è in parte pentito della scelta fatta nel 2016.

“Non ho mai pensato in modo particolare alle Olimpiadi – ha detto in un’intervista rilasciata nei giorni scorsi -. Ripensando al 2016 devo dire che oggi ho un po’ di rammarico di non aver partecipato. Credo che fossi arrivato a un punto in cui ero davvero esausto per la stagione sul tour e l’ultima cosa a cui pensavo allora era scendere nuovamente in campo per rappresentare l’Australia alle Olimpiadi. Ripensandoci, avrei dovuto semplicemente farmi coraggio e giocare. Se lo avessi fatto sarebbe stata certamente una grande esperienza, soprattutto il fatto di rappresentare la mia Nazione”.

Ma al di là del valore che attribuisce alla sua presenza ai Giochi di Parigi, Day è rimasto molto colpito da ciò che ha visto assistedo a un incontro di judo femminile degli ottavi di finale, in cui Diyora Keldiyorova affrontava la medaglia d’oro olimpica in carica, la superstar Uta Abe.

Abe non perdeva un incontro da cinque anni, e la sua improvvisa sconfitta contro Keldiyorova ha letteralmente sconvolto la campionessa. Sbalordita, riusciva a malapena ad alzarsi in piedi e ha dovuto essere portata giù dal tatami in lacrime dal suo allenatore. È crollata a bordo campo e le sue urla echeggiavano nell’Arena Champ-de-Mars. Il dolore di quel momento è rimasto nella testa di Day per giorni.

“Guardare il judo e le emozioni degli atleti quando perdono, vederli crollare, mostrare quanto significhi davvero per loro e per il Paese che rappresentano è stato fortemente istruttivo. Per loro questo è il torneo più importante dell’anno, se non ogni quattro anni, e questo significa tutto. Noi possiamo giocare un torneo ogni settimana se vogliamo, quindi la sconfitta ha un sapore del tutto diverso. Guardare un atleta cercare di superare una sconfitta è molto stimolante, ha sicuramente cambiato il modo in cui ora vedo il golf alle Olimpiadi, ed è per questo che sono molto grato per l’opportunità di poter gareggiare questa settimana”.

Anche Hideki Matsuyama ha parlato di essere particolarmente motivato soprattutto dal fallimento che ha visto in altri atleti di diverse discipline. E ancora una volta il caso per lui era il judo.
“Di recente ho iniziato ad avvicinarmi a un atleta in particolare che ha gareggiato e si è preparato per queste Olimpiadi ma non si è qualificato” – ha detto il giapponese. “Grazie a questa interazione ho capito quanto siano speciali le Olimpiadi, e quanto siano qualcosa di molto impattante a livello emotivo. Quindi voglio giocare anche per quegli atleti che non sono qui perché non ce l’hanno fatta a qualificarsi anche se hanno fatto di tutto per riuscirci”.

Il brivido della vittoria è universale nel golf come nel judo. Nella loro normale attività, però, i golfisti raramente vincono, quindi l’idea di perdere diventa tollerabile, se non altro perché deve esserlo.

Alle Olimpiadi, però, l’agonia della sconfitta non è una costruzione teorica o uno spot promozionale di un programma televisivo sportivo, è una verità dura e crudele a volte. È reale e potenzialmente persino più stimolante di un podio e di un inno nazionale.

Per quanto riguarda Day, far parte della squadra australiana gli ha dato l’opportunità di trovare una nuova fonte di motivazione che solo le Olimpiadi possono fornire. Il medaglia d’argento nel ciclismo Clyde Sefton ha parlato con la squadra all’inizio di questa settimana e Day è rimasto sbalordito dalla “sua determinazione assoluta”.

“La sua determinazione assoluta nel diventare un olimpionico è stata impressionante”, ha detto Day. “Quando è andato da sua madre e le ha detto: ‘Ehi, voglio diventare un atleta olimpico e voglio indossare la maglia verde e oro’.

“Poi ci ha raccontato tutta la sua storia e come ci è riuscito attraverso una determinazione ferrea fin da giovanissimo, perché nessuno te lo insegna. È qualcosa che ti viene instillato dentro. E realizzare il sogno vero e proprio è un’altra storia. Voglio dire, è stato davvero stimolante e quando parli con lui, ha un atteggiamento estremamente calmo. È stato molto importante poter chiacchierare con lui, soprattutto ascoltandolo parlare della sua precedente esperienza olimpica, di ciò che ha attraversato mentalmente e fisicamente”.

Day, che non ha voluto partecipare ai Giochi quando era il miglior giocatore al mondo, oggi è un uomo felice, felice di competere nel più grande evento sportivo al mondo, e di aver compreso il perchè lo sia. L’australiano ha persino accennato al fatto che tenterà di qualificarsi anche nel team del suo Paese tra otto anni, quando i Giochi si terranno a Brisbane e lui avrà 44 anni e sarà al suo 26° anno da professionista.

Forse il golf sta definitivamente imparando che il potere delle Olimpiadi non va cercato negli applausi, ma nelle lacrime.

Fonte: Golf Digest