Un feeling speciale quello di Ian Poulter per l’Italia. È stato proprio nel nostro Paese che il campione di Hitchin, nell’Hertfordshire, in Inghilterra, ha infatti ottenuto il suo primo successo di rilievo. Correva l’anno 2000 e l’Open si svolgeva a Is Molas. Per un colpo, quattro anni dopo il suo esordio nel professionismo, Poults ebbe la meglio sullo scozzese Gordon Brand Jr. E quindi concesse il bis, nell’edizione 2002 dell’Olgiata, superando in quella occasione Paul Lawrie, guarda caso anche lui campione sotto la bandiera con la croce di Sant’Andrea. In questa intervista esclusiva Ian Poulter, che oggi vive al Lake Nona Golf & Country Club di Orlando, in Florida, con la moglie Katie e quattro figli, si racconta a pochi giorni dal suo compleanno numero 40.
Come valuta la sua ultima stagione sul Tour e il suo 2015?
Il 2015 è stato, in generale, deludente. Mi aspettavo di più, a partire dall’Honda Classic, che speravo proprio di vincere. La stagione era cominciata bene, ma poi ho avuto problemi fisici e ho dovuto lavorare per riportare la mia forma fisica a livelli decenti. Il percorso non è ancora concluso, se progredirà come spero posso essere sicuramente fiducioso per il 2016.
Da anni abita in Florida e gioca sul PGA Tour: è soddisfatto dell’esperienza?
Amo vivere in America, quella di otto anni fa è stata una scelta fantastica. Riesco a tornare a casa la domenica sera più spesso e godermi la famiglia, visto che per il 70% delle volte gioco negli USA e per il 30% giro il mondo. Mi piace quello che la Florida offre. Sono da 17 stagioni sul tour, di cui le ultime 12 su entrambi i circuiti mondiali. Spero di poter continuare così ancora un po’.
Lei è famoso nel mondo per gli incredibili risultati in Ryder Cup, ottenuti in match play…
Certo, ma dei 14 tornei da professionista vinti, solo due sono stati giocati con la formula testa a testa. Essere riconosciuto come giocatore da matchplay deriva certo dai miei risultati in Ryder Cup, un teatro importante che tutti ricordano. Ed è un onore essere associato a grandi risultati per la squadra europea.
Come si descriverebbe come giocatore?
Appassionato, aggressivo, innamorato del golf.
Com’è Ian Poulter fuori dal campo?
Mi piace stare con la mia famiglia, con i miei quattro figli che crescono e che ti tengono davvero impegnato. Ogni minuto libero cerco di passarlo con loro.
Ha mai pensato a cosa vorrebbe fare alla fine della sua carriera?
È una data molto lontana quindi no, non ci sto pensando!
Qualcosa nel golf moderno non le piace?
Il nostro sport dovrebbe essere più accessibile a tutti coloro che hanno voglia di divertirsi, giocando sul campo o seguendo noi.
Cosa pensa dello sviluppo senza fine di attrezzatura e palline da golf che allungano il gioco?
La tecnologia è cambiata molto ma è un cambiamento lento. I giovani sono più atletici e colpiscono più forte, tutto qui. Io non sono dalla parte di coloro che pensano di riutilizzare le palle del passato, non complichiamo le cose!
È un amante di orologi? Quali sono gli elementi che, da giocatore, la accomunano a Audermars Piguet, di cui è testimonial?
Sì, amo gli orologi e tutto ciò che c’è di bello. Amo il lusso, e unirmi a Audemars Piguet è stato perfetto per me. Tra tutti i modelli, il mio preferito, per la sua storia particolare, è il Royal Oak Concept Laptimer Michael Schumacher, pensato per un personaggio leggendario e negli anni progettato proprio insieme a lui. Nel 2015 è diventato realtà, e quello che c’è dietro la sua nascita, soprattutto alla luce di quanto accaduto a Schumacher, lo rende ancora più unico e affascinante. Sono fiero di indossare questo e gli altri modelli: ho visto l’attenzione per il dettaglio, la dedizione, la passione con cui si lavora in Audemars Piguet.
Quando ha avuto l’idea di creare la sua linea di abbigliamento?
Il progetto è diventato realtà nel 2007. Abbiamo cominciato come una piccola impresa per poi espanderci, soprattutto online, cercando di seguire i trend di mercato. Un mercato duro, con molta competizione, ma è anche molto divertente.
Ballesteros disse che lei era l’unico giocatore, fra quelli della nuova generazione, a cui volesse assomigliare. Pensa che il carisma sia un dono naturale o si costruisce con gli anni?
Certo che si costruisce. Io stesso, quando cominciai a giocare nel 2000, non ne avevo molto. Eppure guardavo giocatori come Ballesteros o Faldo, ne ammiravo il talento e pian piano mi sono costruito la mia personalità.
Il 10 di gennaio compirà 40 anni: quali obiettivi si pone ancora come professionista? Quali tornei vincere prima di chiudere la carriera?
Vorrei vincere un major, sicuramente. Non voglio essere selettivo, ma se proprio dovessi fare una classifica, sarebbero nell’ordine Open Championship, Masters, U.S. Open e PGA Championship. Non dico mai “Oh se avessi giocato quel torneo o quell’altro…”. Si guarda avanti, alla mia carriera ancora lunga.
Il 2016 si gioca la Ryder Cup a Hazeltine, nel Minnesota. Per battere gli americani, servirà il miracolo di Medinah?
Come sempre sarà un match combattuto fino all’ultimo momento. Ci saranno squadre giovani con giocatori appassionati che si sfideranno fino all’ultimo colpo. Battere gli americani in casa loro è possibile, certo.
Le piacerebbe essere capitano del Team Europe nel futuro? Come dovrebbe essere la sua squadra ideale?
Poter capitanare la squadra europea sarebbe certamente un grande onore. La mia squadra? Penso di poter riassumere in una sola parola come dovrebbe essere: brillante.