L’Open Championship è sempre stato considerato un durissimo banco di prova anche per i migliori professionisti al mondo. Vento, pioggia, freddo, campo duro e veloce, contornato da un folto e impenetrabile rough, hanno di fatto reso per decenni The Open, così amano chiamarlo i britannici, il test più difficile dell’anno.
Anche lo U.S. Open ci ha spesso abituati a percorsi impossibili ma normalmente il giro è nelle tue mani e gli agenti atmosferici non lo trasformano in un’avventura piena di imprevisti.
All’Open Championship le partenze iniziano alle 6:30 di mattina e finiscono intorno alle 15:30, ti può quindi capitare di finire il giro quando la maggior parte dei partecipanti non ha ancora fatto colazione! Ma, soprattutto, puoi avere la fortuna di finire ancor prima che il vento si sia svegliato, il che significa ricevere un ‘bonus’ che va dai 3 ai 6 colpi in meno, a seconda dell’intensità delle raffiche.
Per questo motivo l’orario di partenza può fare una grande differenza alla fine della settimana e può essere, in alcune occasioni, l’ago della bilancia per eleggere il vincitore.
Negli anni abbiamo assistito a giornate infernali, dove si è velocemente passati dalla calma piatta a sessioni di gioco estreme, al limite della regolarità. In quei momenti c’è davvero poco da fare, non bisogna perdere la calma e si deve essere da subito consapevoli che tutto può succedere.
Anche Sua Maestà Tiger Woods, nel pieno delle sue forze e all’apice della sua carriera, si inginocchiò al vento di Muirfield nel 2002, finendo la terza giornata in 80 colpi, il peggior giro della sua carriera. Solo Severiano Ballesteros riusciva a difendersi in quelle condizioni e guadagnava sempre colpi sugli avversari.
Quali sono le qualità più importanti che un giocatore deve avere per domare i links dell’Open Championship?
La prima cosa che mi viene in mente è tanta inventiva, ovvero la capacità di leggere le situazioni e soprattutto di saper “manovrare” la palla. Avere il pieno controllo sia degli effetti che dell’altezza di volo è fondamentale per non essere spazzati via dal vento.
Devi essere pronto a tirare un wedge da 200 metri come, poco dopo, un ferro 4 da 120.
Perché è così importante saper usare entrambe gli effetti della palla nel vento dei links? Più che importante, oserei dire che sia fondamentale per avere una maggior possibilità di prendere fairway e di fermare la palla in green.
Quando il vento soffia forte, in direzione laterale a quella di tiro, devi essere capace di contrastarlo, creando un effetto opposto.
Se dal tee la tua palla vola con effetto uguale alla direzione del vento, andrà certamente più lunga ma, una volta atterrata sui duri fairway dei links, inizierà a rotolare velocemente in diagonale rispetto alla linea di tiro, con ampie possibilità quindi di terminare la corsa in rough.
Con quale vento si va più in difficoltà? Sicuramente con i driver moderni quasi tutti i giocatori soffrono molto il vento che soffia da sinistra. Se da un certo punto di vista la tecnologia delle nuove teste ci ha regalato il vantaggio di poter abbassare notevolmente lo spin della palla e renderla quindi meno vulnerabile al vento, per contro ha anche drasticamente diminuito la facilità di far girare la palla da destra a sinistra. Contrastare un vento forte da sinistra è quindi cosa ormai pressoché impossibile, se non per chi è abituato a fare “gancio” dal tee. Sono ormai molti infatti i giocatori che scelgono di tirare il legno 3 quando il vento soffia da sinistra: più loft e più spin ti permettono di far girare più facilmente la palla da destra a sinistra e difenderti dalla forte spinta del vento.
Il saper contrastare la direzione del vento vale ancor di più quando si parla di un colpo al green.
Se vuoi fermare la palla in pochi metri con un vento che soffia da destra dovrai per forza di cose prendere un paio di ferri in più e creare un fade accentuato. E ovviamente vale anche per un vento da sinistra dove, fortunatamente, con i ferri è ancora possibile contrastarlo imprimendo un effetto draw.
Il primo ad insegnarmi questa regola fu Severiano Ballesteros durante una prova campo dello Scottish Open. Da 170 metri, con vento forte da destra, tirai un bellissimo ferro 7 a prendere il vento, la palla atterrò a un metro dall’asta e finì in fondo al green a sinistra. Seve mi guardò e mi disse: “Bel colpo Alberto, ma non per questa situazione”. Il fuoriclasse spagnolo prese un ferro 5 e tirò un fade accentuato che contrastò il vento e atterrò come la mia ad un metro dall’asta, ma li si fermò. Un vero spettacolo: in quel giro imparai molte cose guardando come Ballesteros impostava i colpi nel vento e i recuperi da intorno ai green.
Da giocatore posso affermare con certezza che una delle sensazioni più belle del golf è vedere il colpo che parte contrastando il vento per tre quarti del volo, per poi raddrizzarsi nel finale grazie ad Eolo, che capisce la finezza, prende la palla e la fa atterrare dolcemente in green.
Intorno ai green bisogna avere un’ampia gamma di colpi a disposizione: può capitare qualsiasi tipo di approccio e in molti casi i recuperi più semplici sono per assurdo proprio quelli dai famigerati ‘pot bunker’: la sabbia è talmente pura che puoi davvero far fare alla palla quello che vuoi e, a meno che non ti trovi a più di venti metri dalla bandiera, hai grandi possibilità di recuperare. Ovviamente è meglio evitare i bunker del fairway, che il più delle volte rappresentano infatti un colpo perso.
Uno dei colpi più utilizzati rispetto ai percorsi parkland è il putt da fuori green.
Il fairway è talmente duro e veloce che puoi infatti puttare anche quando sei a 30/40 metri dal bordo green.
Todd Hamilton vinse l’Open Championship nel 2004 a Troon utilizzando con successo un ibrido a correre da 50 metri dall’asta proprio alla 72esima buca.
Dove c’è poco da fare, ed è davvero impossibile azzardare previsioni attendibili, è sul controllo del primo rimbalzo in pista.
I fairway e i green dei links, pur essendo prevalentemente piatti, sono pieni di infiniti piccoli avvallamenti che creano continue situazioni di sali e scendi.
Quando la palla atterra può quindi incontrare, nello stesso metro quadrato, sia un punto in salita che uno in discesa, il che può significare per un drive facilmente 30/40 metri di differenza e per un colpo al green una decina di metri.
Proprio un falso rimbalzo impedì a Tom Watson di entrare nella storia come più anziano vincitore di major a quasi 60 anni. Alla 72esima buca dell’Open di Turnberry nel 2009 mi trovavo a pochi metri dall’atterraggio del secondo colpo di Watson.
Tom tirò un colpo perfetto, viste le circostanze direi uno dei più belli della sua carriera: dritto all’asta con la giusta altezza e distanza.
Purtroppo rimbalzò alla fine di una piccola gobba e scivolò letteralmente sul terreno senza nemmeno alzarsi, perdendo ogni sorta di spin e finendo oltre il green. Il finale lo ricordiamo tutti: Watson non riuscì a recuperare il par e perse il torneo allo spareggio, circondato dagli applausi di un pubblico in lacrime.
Fra qualche giorno ci godremo lo spettacolo del 149° Open al Royal St. George’s. Sarà sicuramente un test molto duro, le ultime buche in particolare sono davvero impegnative e non perdonano il minimo errore. In quasi tutte le occasioni nelle quali sono stato in questo magnifico campo ho trovato vento forte e ho sempre visto più giocatori perdere la gara per errori finali piuttosto che vincerla con dei birdie.