Hughes Norton, storico manager di Tiger Woods, racconta nella sua autobiografia gli inizi della carriera del Fenomeno, coronata dai memorabili accordi con Nike e Titleist 

Non ricordo esattamente il momento in cui Earl e Tiger Woods mi comunicarono che la decisione di passare al professionismo era stata presa, ma accadde prima del terzo U.S Amateur vinto dal Fenomeno.

Quella settimana, al Pumpkin Ridge Golf Club, avevo portato con me diversi contratti da far firmare a Tiger, a seguito di tanti tira e molla con Nike e Titleist.

Quella domenica sera, quando Tiger alzò il trofeo a Portland, i suoi vestiti e le sue scarpe realizzati su misura portavano il logo Nike e la sua sacca da golf Titleist era pronta per il PGA Tour, proprio come lo era lui. 

Un risultato ottenuto dopo più di due anni di lavoro, iniziato con la vittoria al suo primo U.S Amateur.

All’epoca non lo seguivo ancora come manager e non lo feci sino al suo debutto ufficiale nel professionismo, ma avevamo già una tacita intesa.

Un approccio inusuale per Tiger

Con lui optai per una strategia poco ortodossa: invece di creare una guerra alla miglior offerta, concentrai i miei sforzi su due sole realtà sportive, Nike e Titleist. Era una scelta azzardata, ma a mio parere vincente. 

Sapevo che Nike sarebbe stata più difficile da convincere, ma grazie alle incredibili risorse della IMG, disponevo di alcuni assi nella manica.

Un paio di anni prima la nostra divisione tennis siglò un importante accordo con l’azienda di abbigliamento sportivo, grazie al quale ottenemmo la possibilità di rappresentare l’indomito Andre Agassi, figura di spicco che si adattava perfettamente all’immagine volutamente audace del marchio. 

Per il contratto di Tiger il mio interlocutore in Nike era Steve Miller, direttore della divisione marketing dell’azienda con un passato da dirigente sportivo per la Kansas State University.

Dopo tre o quattro incontri preliminari sentivo che le cose stavano andando per il verso giusto e che eravamo pronti a trattare “L’argomento Tiger”. La mia tesi si basava su una serie di fatti: 

1) Nike aveva notato la crescita esplosiva del golf, fatto che l’aveva spinta a tentare un primo approccio al settore con scarpe e abbigliamento ed era sul punto di fare un passo in avanti con attrezzature e palline. 

2) L’ azienda si associava solo ai migliori sportivi del momento, come Andre Agassi, Micheal Jordan e Jerry Rice. 

3) Questi nomi ormai avevano fatto il loro tempo e Nike da anni non aveva nuove personalità su cui puntare. Serviva una svolta. 

4) Tiger lo sarebbe stato. Sapevo che era il momento giusto. 

5) Phil Knight aveva fiuto per i grandi campioni, come Agassi e Jim Courier. Se i loro incassi erano già stellari – mi dissi – chissà quanto avrebbe dato a  Tiger, il miglior giovane golfista dai tempi di Jack Nicklaus.  

Tenendo a mente questi concetti, scoprii le mie carte. “Ecco un talento generazionale con un carisma e un fascino tale da lanciare Nike Golf nei grandi tornei.

Non solo ci rivolgiamo a voi come prima e unica scelta, ma vi diamo anche la possibilità di controllare l’immagine di Tiger.

L’iconico baffo sulla sua maglietta e sul cappello sarà l’unico marchio che mostrerà. Un puro messaggio Nike che tutti potranno ammirare. Qualsiasi azienda lo vorrà e voi potrete batterle tutte sul tempo, ma sarà a caro prezzo…”.

Una proposta azzardata

Poi, deglutendo a fatica, dissi a Steve che con circa 50 milioni di dollari per cinque anni avremmo potuto chiudere l’affare. Nessun altro nel mondo del golf – né Palmer, né Norman – aveva mai guadagnato cifre simili per abbigliamento e scarpe. 

Ovviamente, Steve mi rispose “È ridicolo”, ma non disse di lasciar perdere. Non fece mai mistero dell’interesse della società per Woods.

Pensai che quella cifra, pur essendo un azzardo da parte mia, non era troppo distante da quello che Steve avrebbe potuto offrire.

Nessuna società golfistica disponeva di un budget o un’influenza tale da rendere Tiger un nome di spicco, e  questo poteva essere un punto a nostro sfavore.

Un altro insolito aspetto della mia proposta sul quale Miller non batté ciglio fu la clausola sulla garanzia di guadagno, a prescindere dal risultato nei tornei.

Volevo che Tiger avesse delle sicurezze finanziarie, indipendentemente dall’ottenimento o meno della carta per il Tour o da altri possibili ostacoli.

Era nel diritto di Nike chiedere significative riduzioni se i risultati non fossero stati all’altezza delle aspettative, ma non lo fece mai.  

C’erano poi dei bonus, con cifre inaudite per il golf ma non per il tennis: per il primo anno chiesi 500mila dollari per ogni vittoria in un major, con un incremento di 100mila dopo il primo anno, fino a un massimo di 900mila per il quinto. 

Un altro bonus invece si basava sul ranking più alto raggiunto durante l’anno; quindi, se Tiger fosse stato numero 1 anche solo per una settimana avrebbe ottenuto la stessa cifra sopra citata con lo stesso incremento annuo.   

Suppongo che a nessuno dentro la Nike venne in mente di controllare i contratti che stipulai dieci anni prima per Curtis Strange e Peter Jacobsen.

Se lo avessero fatto avrebbero riso delle mie importanti richieste. Ad ogni modo, quelle clausole aggiunsero altri otto milioni di dollari al suo compenso dal 1997 al 2001.

Alla fine, Steve tornò da me con una controfferta: 40 milioni, con una garanzia di altri otto all’anno. Il miglior compromesso che uno potesse sperare. Fu il momento più alto della mia carriera. 

Un’inaspettata battuta d’arresto

Ma pochi giorni dopo, accadde qualcosa di inaspettato: qualcuno tentò di sabotare l’accordo. Opera di un agente rivale? No, di Phil Knight. 

Il suo odio per la categoria dei manager era risaputo, e in quell’occasione, decise di prendere di mira proprio me.

Segretamente mandò un ragazzo di colore dell’esecutivo di Nike a casa dei Woods, in California, che disse loro: “Non avete bisogno della IMG. Trattate direttamente con noi e risparmierete il 20% di commissioni”. 

L’onestà di Earl lo portò a chiamarmi immediatamente per darmi la notizia. Rimasi di stucco. Non sapevo che risposta avrei avuto dall’altro lato del telefono.

Alla fine, mi disse che aveva rifiutato l’offerta rimarcando la sua fiducia nei miei confronti. La sua lealtà mi commosse.L’accordo tra Tiger e Titleist

In seconda battuta parlai con Titleist. Tiger da tempo giocava con le loro palline, con i loro driver e legni, anche se era certo che avrebbe potuto vincere con qualsiasi altro brand. 

Ero così convinto della perfezione di quell’unione che ne parlai direttamente con l’amministratore delegato della società, Wally Uihlein.

Entrambi volevamo raggiungere un accordo nel più breve tempo possibile. L’intesa prevedeva venti milioni di dollari per cinque anni, inclusi dei bonus simili a quelli di Nike. 

Ma c’era ancora un incontro da fare per finalizzare il tutto. Uihlein voleva che ci vedessimo, ma di nascosto.

Era il giugno del 1996 e il luogo dell’appuntamento clandestino con Earl e Tiger fu un hotel di San Francisco. 

Parlammo di un ipotetico accordo in previsione del passaggio di Tiger al professionismo. A quel punto la decisione era già stata presa ma non ancora annunciata.

Uihlein asserì che Titleist non avrebbe mai chiesto a Tiger di giocare con prodotti che non lo soddisfacevano. Doveva avere tutto quello che desiderava.

A quel punto sembrava fatta, ma Earl aveva ancora qualcosa da dire: “Parliamo ora delle cose importanti – quando avrò anche io il mio set completo?”.

Alla vigilia del debutto professionistico

Alla fine di agosto Tiger arrivò al Pumpkin Ridge per l’U.S. Amateur, dove avrebbe incontrato Phil Knight per poi volare assieme in direzione di uno degli ultimi eventi del PGA Tour, il Milwaukee Open, in vista di una conferenza stampa organizzata da Nike.

Tiger non aveva ancora reso note le sue intenzioni future: una settimana prima disse al suo coach della Stanford University che sarebbe tornato al college in autunno mentre alla presidentessa del USGA, Judy Bell, assicurò la sua presenza al World Amateur Team Championship in programma a novembre dello stesso anno. 

Earl era stato meno cauto: due settimane prima disse a dei giornalisti che dopo lo U.S Amateur ci sarebbero state importanti novità, ma di mantenere il segreto.

Nel tardo pomeriggio di domenica, quando Tiger imbucò il putt vincente battendo Steve Scott alla 38esima buca, fu difficile realizzare cosa avesse appena compiuto.

Aveva vinto sei campionati nazionali della USGA in altrettanti anni su sei differenti percorsi. 

Quella sera io, Tiger, i suoi genitori e il coach di allora, Butch Hammon, ci vedemmo con dei rappresentanti di Nike per un ultimo incontro.

L’iconico spot di Nike per Tiger Woods

Ad accoglierci c’era un sorridente Phil Knight, accompagnato da una persona che avevo già visto in azienda. “Questo è Jim Riswold”, disse Knight. “Ha creato alcuni spot per me”.

Era un eufemismo. Riswald era il leggendario direttore creativo della Widen+Kennedy, agenzia pubblicitaria responsabile della creazione di alcune delle campagne pubblicitarie più iconiche di Nike, come la “Air Rabbit”, con Micheal Jordan e la serie “Bo Knows” con Bo Jackson. 

Ma lo spot più importante della carriera di Riswold sarebbe stato quello che ci avrebbe mostrato quella sera, in vista della conferenza stampa dei giorni seguenti: la dichiarazione di Tiger del suo passaggio al professionismo.

Sullo schermo comparvero una serie di foto della sua infanzia e dei suoi inizi di carriera, accompagnate da un coro di sottofondo e dal seguente testo intitolato “Ciao mondo”: 

  •  A 8 anni giravo sotto gli 80.
  • A 12 sotto i 70.
  • Ho partecipato al mio primo torneo
    del PGA Tour, il Nissan Open, a 16 anni.
  • Ciao mondo. 
  • Ho vinto lo U.S. Amateur a 18. 
  • Ho giocato il mio primo Masters quando ne avevo 19. 
  • Sono l’unico nel golf ad aver vinto tre titoli consecutivi allo U.S. Amateur. 
  • Ciao mondo.
  • Ci sono ancora campi negli Stati Uniti dove non mi è permesso giocare
    per il colore della mia pelle.
  • Ciao mondo. 
  • Ho saputo che non siete ancora pronti per me. 
  • Siete pronti? 

Era uno spot senza precedenti, ma la mia prima reazione non fu del tutto positiva.

Avevo dubbi sulla frase “ci sono campi dove non mi è permesso giocare” considerando anche il passato di Earl, segnato dalla discriminazione, ma tenni questi pensieri per me. 

Nella stanza calò un silenzio tombale. Stavamo cercando di metabolizzare ciò che avevamo appena visto. Alla fine, Tiger disse “Posso rivederlo?”. 

Dopo la seconda proiezione, a sorpresa, fu Butch Harmon a parlare. 

“Questo spot è la cosa migliore che abbia mai visto” ammise. Non c’era altro da aggiungere. La carriera di Tiger Woods era sul punto di decollare. 

L’ufficializzazione della collaborazione con Nike e Titleist

Bisognava solo rendere il tutto ufficiale, con la chiusura dei contratti con Nike e Titleist. Tiger li firmò senza mostrare alcuna reazione. 

Sembrava quasi indifferente al denaro. Certo, un ventenne agli inizi della sua carriera non ha gli strumenti per quantificare la mole di quei numeri, ma provai a contestualizzare i due accordi dicendogli: “Tiger, ti rendi conto che ora stai guadagnando quattro volte quello che prende Greg Norman, il numero 1 del mondo, in attrezzatura e palline e più del doppio con scarpe e vestiti?!”.

Rispose dimessamente: “Beh non male, vero?”. 

Il terzo contratto di quella sera era un accordo di rappresentanza con la IMG. Dopo aver parlato con l’avvocato di Tiger, John Merchant, decisi di rendere i nostri compensi simili alle royalties di un accordo editoriale.

In questo modo la IMG avrebbe ricevuto il 15% dei primi 2.5 milioni di dollari di entrate annuali derivanti dal merchandising di Tiger, 20% sulle entrate tra i due e mezzo e i cinque milioni di dollari e il 25% su tutti i redditi superiori ai cinque milioni.

Una seconda clausola riguardava la durata dell’accordo. Il contratto base era di quattro anni, dal 1996 al 2000, ma feci aggiungere degli incentivi. 

Se in un anno l’IMG avesse garantito a Tiger dei guadagni superiori a 16 milioni di dollari, il contratto sarebbe stato prolungato fino al 2002, con 26 milioni al 2004 e con 38 milioni fino al 2005, per un totale di dieci anni. 

Alla fine del 1997 avevamo già raggiunto tutti e sei gli anni di estensione. 

di Hughes Norton e George Piper (Fonte Golf Digest)