Lo U.S. Open è storicamente il test più temibile, per i campi preparati al limite della giocabilità. Una cosa è certa: alla fine della settimana in pochi avranno il piacere di terminare sotto par. Ma ricordiamoci che è la preparazione di un percorso che determina la difficoltà di questo torneo, non la lunghezza delle sue buche.
Lo U.S. Open Championship è sempre stato reputato il banco di prova più duro e difficile del circuito mondiale. I campi di questo ambito major sono infatti preparati in maniera tale da riuscire a creare seri problemi a tutti i concorrenti, anche in occasione di giornate climaticamente perfette.
Fairway stretti, rough folti, green duri e ondulati sono le caratteristiche principali di questo splendido e affascinante torneo che mette sempre a dura prova anche i migliori giocatori del mondo.
Alla fine di un’estenuante settimana, in pochi avranno il piacere di terminare sotto par, e chi ci finisce il più delle volte ha l’onore di alzare il trofeo.
Qui non si scherza
In questi ultimi anni si è spesso parlato di come riuscire a rendere i campi più difficili per fronteggiare le abilità e la potenza delle nuove generazioni. È stato anche proposto di limitare la performance delle palle da golf, per rimettere in gioco gli ostacoli situati intorno ai 270 metri ed evitare che i percorsi vengano ridicolizzati dagli odierni bombardieri.
Soluzione a mio parere ridicola, che andrebbe a discapito della spettacolarità e contro quello che il pubblico si aspetta di vedere dopo aver pagato il biglietto, ovvero le ‘Big Bombs’ di oltre 300 metri.
Per alzare gli score e fare in modo che non si vinca sempre con -24 si è anche proposto di trasformare i par 5 in 4. Il risultato finale diventa di ben sedici colpi in più, ovvero -8 al posto di -24, e tutti a fine gara potrebbero quindi affermare di aver giocato su un percorso tosto: “Wow, hanno vinto con -8, il campo quest’anno era davvero difficile”.
In realtà è soltanto un’illusione ottica, tecnicamente i percorsi infatti rimangono esattamente gli stessi dell’anno precedente, cambiano solo i numeri sullo score!
La storia di come si prepara un campo per lo U.S. Open
Gli addetti ai lavori sanno bene che l’unico modo per mettere in difficoltà i giocatori è quello di preparare i campi stile U.S. Open. Sono le caratteristiche del set up che determinano la difficoltà del torneo, non la lunghezza.
Valderrama, per esempio, viene tirato a lucido per gli eventi importanti e si difende sempre in maniera egregia pur non essendo lungo e non avendo un rough severo.
Sappiamo bene che le nuove tecnologie e i fisici sempre più atletici dei giocatori hanno fatto sì che i bunker e gli ostacoli d’acqua dei campi costruiti prima del 2000 non siano più in gioco.
Soluzioni alternative
Per questi tracciati l’unica soluzione per rimettere gli ostacoli nella landing area del primo colpo rimane quella di spostarli più avanti o semplicemente quella di aggiungere dei back tee, purtroppo non ci sono altre alternative.
Fermo restando che per rendere un campo tosto e mettere in difficoltà i giocatori non basta mettere gli ostacoli nell’area di atterraggio del drive, devi anche stringere i fairway, alzare i rough e indurire i green per creare una selezione naturale e favorire i migliori tiratori di palla.
Per presentare i percorsi in questo modo non ci vuole molto se il clima è favorevole, ma devi iniziare a lavorare con qualche mese di anticipo e quindi sottrarre il campo ai soci per un lungo lasso di tempo.
Un altro problema che nasce da questa tipologia di set up è la durata del giro di gara, con i rough troppo alti oltre ad aver bisogno di molti volontari in campo, si rischia ogni volta di metterci più di cinque ore per concludere le 18 buche convenzionali.
Non bisogna esagerare
Tornando allo U.S. Open, abbiamo visto che in alcune occasioni nel preparare il tracciato è stato sorpassato il limite del buon senso e si è velocemente passati da un percorso definito tosto ad uno impossibile, suscitando pesanti rimostranze da parte dei giocatori.
A volte chi prepara il campo fa davvero fatica a capire la differenza tra difficile e impossibile e si rischia quindi di rovinare un torneo soltanto per il voler esagerare alcune situazioni.
Io ho sempre sostenuto che i percorsi difficili esaltano i migliori giocatori, premiano i colpi perfetti e ripagano le strategie più rischiose, il famoso ma sempre attuale ‘Risk & Reward’.
I tracciati impossibili e le posizioni di bandiera ‘stupide’, al contrario, possono punire anche i colpi perfetti e vanno quindi ad appiattire il valore dei giocatori.
Più di una volta è capitato che la velocità dei green sia sfuggita di mano agli organizzatori e che non fosse quindi adeguata alle alte percentuali di pendenza, rendendo davvero impossibile trovare quattro posizioni di bandiera giocabili all’interno di un singolo green.
La conseguenza è che in enormi superfici di 900 metri quadrati, l’area per mettere le bandiere della settimana si può alla fine ridurre a una piccola porzione di soli dieci metri quadrati.
La competizione
Parliamo ora della competizione. Nei primi tre giri di gara dello U.S. Open l’obiettivo principale non è quello di fare meno degli avversari ma soltanto quello di ‘stare a galla’, riuscire a contenere il campo e mantenere la calma necessaria per sopportare le inevitabili ‘facciate’ alle quali sei costantemente esposto in questo torneo.
Solo sul tee della 10 del quarto giro puoi iniziare a fare qualche calcolo e concentrarti sul gestire il vantaggio o cercare di accorciare le distanze dal leader.
Come abbiamo già accennato, i green sono davvero impegnativi ma la purezza del loro manto erboso garantisce ai migliori puttatori una buona arma di difesa per poter risparmiare qualche colpo.
Per tutti i partecipanti lo U.S. Open rappresenta sempre e comunque una grande settimana di divertimento.
Tutti i giocatori vengono infatti accolti con entusiasmo e ammirazione da parte dei numerosi volontari. Non importa quale sia il tuo ranking, se ti sei guadagnato il diritto a mettere la palla sul tee della 1 di questo major, per il pubblico hai già vinto la tua sfida personale.
Non ci resta che aspettare il 15 giugno per sederci tranquilli sul divano e goderci lo spettacolo assicurato del 123° U.S. Open.