Non capita tutti i giorni di avere l’occasione di intervistare il numero uno del mondo, il giocatore che, dopo Tiger Woods, è in grado di smuovere gli animi di ogni appassionato golfista e che, senza esagerare, è considerato il suo vero e unico successore.
Stiamo parlando di Rory McIlroy, un nome che non ha certo bisogno di presentazioni
A settembre abbiamo avuto la fortuna di vederlo dal vivo a pochi metri di distanza al Marco Simone in occasione del 79° DS Automobiles Open d’Italia e lì ci siamo nuovamente resi conto quanto il fuoriclasse nordirlandese giochi uno sport diverso dalla maggior parte dei suoi colleghi avversari. La perfezione dei suoi movimenti, la fisicità del suo swing, il suono della sua palla quando viene compressa dai ferri insieme alla straripante potenza e al suo modo di stare in campo, lo rendono unico nel suo genere.
Il golf mondiale, orfano ormai di Tiger, si è piano piano appoggiato a McIlroy diventato un vero e proprio punto di riferimento. Gli ingredienti per essere un leader, non solo un campione, sono molteplici: servono idee chiare, carisma, capacità d’influenzare l’opinione pubblica oltre, ovviamente, ai risultati. Rory li racchiude tutti e specialmente in questo ultimo anno non si è risparmiato nel prendere posizioni nette e di rottura nei confronti dell’avanzata della superlega araba, dalla quale aveva preso le distanze già agli arbori. Nel 2020 rifiutò infatti ingaggi astronomici in nome dello sport e dei propri valori.
Ma veniamo un attimo ai risultati ottenuti solo nel 2022
Forse ci si dimentica cos’è riuscito a conquistare in questa stagione scalando otto posizioni in classifica e arrivando nuovamente a ricoprire il primo posto nel World Ranking. Partiamo quindi dalla fine e dalla vittoria alla CJ Cup di fine ottobre. Dieci anni dopo essere arrivato per la prima volta in cima alla classifica mondiale, il nordirlandese soppianta Scottie Scheffler proseguendo un’annata da vero recordman. Questa è la nona volta che McIlroy indossa la corona di re del golf, un traguardo che ha raggiunto per la prima volta dopo aver vinto l’Honda Classic nel 2012 ad appena 22 anni. Questo risultato segna la sua 107esima settimana totale come numero 1 del mondo, dietro solo ad altri tre colossi: Dustin Johnson (135 settimane), Greg Norman (331) e, ovviamente, il leader di tutti i tempi, Tiger Woods (683). Salgono così a 23 i titoli conquistati sul PGA Tour, oltre che il trionfo storico in FedEx Cup conquistato il 29 agosto scorso. Sul percorso dell’East Lake di Atlanta McIlroy è stato il mattatore del Tour Championship in un’escalation fino alla 72esima buca che l’ha incoronato re del PGA Tour per la terza volta dopo le edizioni del 2016 e del 2019. Mai nessuno come lui. Un’annata incredibile suggellata da quattro Top 10 nei major con quel secondo posto al Masters proprio dietro a Scheffler e quell’uscita dal bunker imbucata alla 18 che ha letteralmente mandato in visibilio il pubblico presente e quello da casa. Per Rory però non è ancora finita qui. A fine novembre si presenterà a Dubai per conquistarsi anche il primato di re del DP World Tour Ranking dopo le edizioni conquistate nel 2012, 2014 e 2015. La stoffa del campione si riconosce anche nei momenti difficili e nel prendersi le proprie responsabilità non adducendo a scuse. Ne è la prova la reazione avuta al termine dell’ultima Ryder Cup giocata in suolo americano. McIlory, colonna portante della formazione europea, alla fine del suo match singolo di domenica si è lasciato andare a un pianto liberatorio di fronte alle telecamere: “Amo far parte di questo gruppo. Amo questa squadra e amo così tanto i miei compagni. Avrei dovuto fare di più per loro. Sono contento di aver messo un punto sul tabellone, ma avrei voluto di più. Non vedo l’ora di avere un’altra occasione”.
E questa occasione si presenterà tra meno di un anno, in un posto molto speciale: Roma.
Partiamo proprio dalla Città Eterna. Due mesi fa sei stato per la prima volta al Marco Simone. Come ti è sembrato il campo e secondo te come bisogna intervenire per arrivare pronti alla Ryder Cup del prossimo anno?
Il percorso è già in ottime condizioni e credo sia perfetto per ospitare una manifestazione di tale portata. È un campo che ricorda molto altri circoli nei quali si è giocata la Ryder, penso al Celtic Manor e a Le National. I suoi ampi scenari che circondano le buche creano veri e propri anfiteatri naturali adatti a ospitare le tribune e permettere a tutto il pubblico di seguire la manifestazione. Dal punto di vista tecnico, invece, so che lo staff del circolo, coadiuvato dalla Ryder Cup Europe, sta già apportando piccole modifiche strutturali ad alcune buche, come spostare dei battitori. Ma direi nel complesso il Marco Simone era perfetto a settembre e lo sarà ancora di più tra meno di un anno.
È un disegno che avvantaggia l’Europa o gli Stati Uniti?
Dipende tutto da come verrà preparato il set up del percorso. Solitamente la squadra americana è favorita dal tee di partenza perché ha giocatori che fanno distanza considerevoli con il driver. Noi europei invece siamo più forti nei colpi corti al green. Già all’Open d’Italia è stato portato avanti il tee di partenza della buca 16 e non escludo che verranno fatte altre scelte simili. Ci affideremo poi alle statistiche per giocarci tutte le carte a nostro favore e riportarci la coppa a casa.
L’anno prossimo alla Ryder ci sarà con ogni probabilità una squadra europea molto giovane. Cosa pensi di questa nuova generazione di giocatori?
Ci sono tantissime nuove leve che stanno facendo molto bene sul DP World Tour. Penso a Robert MacIntyre che ha vinto proprio qui a Roma pochi mesi fa, ai i gemelli Højgaard, che sono sempre tra i primi posti in classifica, e a Guido Migliozzi, che ha trionfato in Francia con le ultime 18 buche da capogiro. Personalmente mi piace molto Guido, l’ho visto all’opera l’anno scorso a Torrey Pines in occasione dello U.S. Open e apprezzo l’atteggiamento che ha in campo e come reagisce sotto pressione. Credo che tutti questi giovani possano dare un importante supporto alla squadra e rappresentare il punto di partenza per il futuro del team europeo negli anni a venire.
Tra questi chi è già pronto per rappresentare la squadra del Vecchio Continente?
Nessuno è mai preparato a disputare la sua prima Ryder Cup. Difficile spiegare l’emozione e i brividi che si provano nel salire sul tee della 1 il venerdì mattina ed essere accolti da una vera e propria arena che urla il tuo nome.
Dal 2013 sei ambassador Omega, sei mai stato coinvolto nella produzione dei modelli?
Sono nella famiglia Omega ormai da 10 anni, sono molto fortunato perché è una realtà che crede nel golf e nello sport in generale e non smette di investire nella sua crescita. Nel team Omega sono coinvolto non tanto nella produzione quanto nel testare i modelli come il mio Seamaster che ho al polso. La mia esperienza come giocatore è utile per aiutare la casa di orologeria nella creazione di un oggetto performante e adatto al polso di noi atleti. Il design deve essere fatto per i golfisti, avere un giusto peso e un utilizzo dei materiali adatto da indossare per tutte le 18 buche.
Ti piacciono gli orologi, sei un collezionista?
Sì, è una passione che ho maturato da ormai diversi anni. In generale mi piace collezionare tutto ciò che per me ha un valore affettivo. Nel 2019 a Cran Montana in occasione dell’Omega European Masters sono andato in showroom Omega e ho visto il modello DeVille Tourbillon, me ne sono subito innamorato e l’ho comprato seduta stante. Ad oggi è il modello che amo più in assoluto e che ho sfoggiato l’anno scorso dopo la vittoria della CJ Cup.
Sappiamo benissimo come la pensi sulla diatriba tra PGA Tour e LIV Golf, ti sei sempre esposto e hai preso una posizione netta a favore del primo circuito. Ma secondo te, in futuro, queste due realtà si potranno sedere a un tavolo e dialogare civilmente per il futuro del golf?
Assolutamente sì. Credo che non ci sia più tempo da perdere, PGA Tour e LIV dovranno trovare un compromesso e parlare per il bene del nostro sport. Non so quando questo potrà succedere, sicuramente non domani, ma per forza di cose si dovrà trovare un accordo. Il golf è una realtà piccola non è il calcio dove al suo interno convivono tra loro grandi mondi come la Serie A, la Champions League, la Fifa o la Uefa. Quindi, a maggior ragione, bisogna stare uniti e trovare un modo per far sì che in futuro non si creino spaccature come quella alla quale stiamo assistendo oggi.
Sei molto amico di Tiger. Come sta? Secondo te tornerà a giocare in tempi brevi?
Tiger nel complesso sta bene, sta ancora lavorando duramente alla sua riabilitazione, la strada è lunga ma migliora giorno dopo giorno. Dopo l’Open Championship si è dovuto prendere una pausa ma credo che possa rientrare entro la fine dell’anno, magari già all’Hero World Challenge.
Hai mai fatto 18 buche con il figlio Charlie?
No, ma ho praticato con lui con paio di volte e posso dire che è impressionante vederlo swingare e pensare che ha solo 13 anni. L’importante però è che mantenga la spensieratezza e lo spirito giusto. Deve continuare a giocare per il puro divertimento senza farsi sommergere dalle tantissime pressioni che, inevitabilmente, arriveranno in quanto figlio di un fenomeno come il padre. Ma Tiger in questo è molto attento e lo sta preservando nel modo migliore.
Quanto ti è cambiata la vita da quando è nata Poppy?
Tantissimo. I miei amici me lo dicevano sempre, il matrimonio non cambia nulla ma un figlio stravolge tutto. Ed è proprio così ma lo fa in un senso meraviglioso che mai avrei pensato di vivere. Con lei ho imparato ad apprezzare le piccole cose, a vedere il mondo con i colori dell’arcobaleno. Per mia figlia è tutto una scoperta e grazie a lei imparo sempre qualcosa di nuovo, ho riscoperto l’arte della sorpresa e ne sono follemente innamorato.
Viaggia spesso con te?
Sì, è un’ottima viaggiatrice, ama andare in giro per le città e conoscere posti nuovi. Per esempio, si è divertita moltissimo a Roma in occasione dell’Open d’Italia. Finito di giocare mia moglie ed io l’abbiamo portata ai giardini di Villa Borghese ed è tornata a casa entusiasta.
Dopo un’incredibile carriera cosa vuoi ancora dimostrare?
Il mio obiettivo principale era quello di tornare numero uno del mondo. Non sono qui per accontentarmi e ora che ho ottenuto questo risultato, desidero andare a caccia di altri trofei e, con un po’ di fortuna, vincere altri major.
Com’è stato il percorso che ti ha permesso di tornare in cima al World Ranking?
Dopo la Ryder Cup dell’anno scorso ho capito che dovevo resettare tutto e rimettermi in discussione come uomo e come giocatore. Sono stati dodici mesi intensi dove ho elaborato e capito molto su me stesso e sul mio gioco. Ho ricomposto tutti i pezzi del puzzle e ora vedo nitidamente il mio futuro e mi godo ogni singolo momento sul campo da golf perché è quello che amo fare. Si tratta solo di andare avanti in questa direzione, mantenere la concentrazione e continuare a giocare come sono capace.
Dietro a un grande campione c’è sempre una grande squadra…
Esatto, questa scalata non è solo merito mio. Ho la grande fortuna di poter condividere questo percorso con un team magnifico al quale va tutta la mia riconoscenza a partire da mia moglie Erica e da mia figlia, i pilastri senza i quali non vivrei, il mio caddie Harry Diamond, l’allenatore di lunga data Michael Bannon, l’agente Sean O’Flaherty, l’allenatore Brad Faxon e il mio mental coach Bob Rotella.
Hai fatto una scelta particolare, quella di affiancarti ad Harry Diamond, un caddie amico più che a una figura professionale. Perché questa scelta e che vantaggi ti ha portato?
Harry ed io lavoriamo insieme dal 2017 e da allora abbiamo collezionato numerosi successi; quindi, penso che i nostri risultati parlino da soli. È un ottimo giocatore amateur, pensa che quando eravamo ragazzi era più forte di me. Ha un elevatissimo quoziente intellettivo ed è molto preparato sulla materia, lavora sodo e mi conosce meglio di chiunque altro. Non potrei avere un caddie migliore al mio fianco a sostenermi in questo magnifico viaggio.