Non poteva esserci prologo migliore a questa Ryder Cup, al via tra pochi giorni in Wisconsin, di quanto visto e vissuto al Marco Simone nel corso dell’Open d’Italia da poco concluso.
Il nuovo campo non ha tradito le enormi attese della vigilia. Sia tra chi ha avuto l’occasione di assistere dal vivo al torneo sia tra coloro che lo hanno seguito soltanto in televisione il giudizio è stato praticamente unanime.
Un vero gioiello per disegno e manutenzione, degno scenario della prossima sfida Europa-Stati Uniti, in programma in terra europea tra due anni.
Il primo non scontato e importante passo è stato quindi compiuto: presentare al mondo intero un percorso che fosse all’altezza del più grande evento golfistico non era per nulla scontato, anzi.
La flappa, per usare un termine prettamente golfistico, era davvero dietro l’angolo. Ma i commenti, soprattutto quelli giunti dai diretti interessati, ovvero i giocatori, hanno premiato a pieni voti il tracciato romano. A 24 mesi dalla Ryder Cup italiana ora è tempo di concentrare gli ultimi decisivi sforzi su viabilità, servizi e clubhouse, per offrire a giocatori e pubblico un’edizione da ricordare, come le storiche prime volte di Spagna e Francia.
Settembre è mese di Ryder per antonomasia.
Eccoci allora senza nemmeno tirare il fiato alla vigilia di un nuovo attesissimo match, il 43° dalla nascita del torneo e il 21° da quando a sfidare gli Stati Uniti è stata chiamata tutta l’Europa golfistica.
La storia di questo evento, oggi seguito da milioni di spettatori, non è però sempre stata rose e fiori. Alla fine degli anni 70, quando fu deciso di coinvolgere l’Europa e non più solo le isole britanniche nella biennale sfida, l’attenzione generale era ai minimi termini.
Gli americani demolivano regolarmente i britannici, che in solo tre occasioni dal 1927 erano riusciti a vincere.
Insomma, non c’era partita, e quando non esiste una sana alternanza di risultati, nessuna rivalità può essere degna di tale nome.
Fu proprio un campione del Vecchio Continente a cambiare il destino e le sorti della Ryder, Severiano Ballesteros.
Il suo straordinario carisma, la sua classe cristallina e la sua incredibile energia diedero un vitale impulso al torneo e alla squadra europea al punto che, nel 1985, questa riuscì per la prima volta a strappare la coppa agli americani.
Masters e Open Championship a parte, le più belle e ricorrenti immagini della straordinaria carriera di Ballesteros sono legate proprio alla Ryder.
Anima e cuore della squadra dal 1979, anno della sua prima apparizione, ha trascinato i compagni in imprese epiche, come la prima indimenticabile vittoria negli Stati Uniti nel 1987 a Muirfield Village, in Ohio, a casa di Jack Nicklaus, capitano americano in quell’occasione.
Seve ha giocato 37 incontri, con un record di 20 vittorie, 12 sconfitte e 5 pareggi.
Ma risultati a parte, la sua eredità scorre oggi nelle gesta e nei comportamenti di ogni componente del team europeo.
La sua tenacia, il suo spirito di gruppo, il saper porre l’asticella sempre più in alto, tirando fuori il meglio e oltre da ogni singolo colpo, sono oggi parte del DNA dei giocatori continentali. Se n’è andato troppo presto Seve, battuto da un male incurabile nel 2011 a soli 53 anni, ma in quella vittoria da capitano a Valderrama nel 1997 si raccoglie tutta la sua filosofia e quella che continua a contraddistinguere le squadre del Vecchio Continente, fatte da ragazzi cresciuti golfisticamente nel suo mito.
Gli americani lo sanno e per questo ci temono, anche stavolta.
Partiamo, come quasi sempre accade, non certo da favoriti. Ma i fantasmi di Medinah, l’ultimo incredibile successo europeo fuori casa, tornano ricorrenti nelle loro teste.
Quell’anno fu un settembre di notti magiche, passate a saltare sul divano di casa urlando come fossero i Mondiali di calcio. Che siano ancora notti magiche allora quelle che tra poco ci attendono. Ma non ce ne vogliano Edoardo Bennato e Gianna Nannini: questa volta non sarà aspettando un gol, ma un birdie, anzi, parecchi. E rigorosamente di colore blu Europa.