Avete mai provato a parlare di ‘British Open’ a un britannico? “British what?” è la quasi immediata e piuttosto piccata risposta. “Noi abbiamo THE OPEN, nient’altro”.
Dietro a questo scambio di battute si racchiude tutto l’orgoglio e la consapevolezza di chi la storia del golf l’ha scritta sin dal suo capitolo numero uno. L’Open Championship, o più semplicemente The Open per i puristi, è l’essenza e il simbolo per antonomasia del nostro sport, il capostipite di ogni torneo.
Una leggenda costruita nel tempo
Dal Prestwick Golf Club, nell’Ayrshire, Scozia occidentale, sede della sua prima edizione, al Royal St. George’s, il links inglese di Sandwich, nella contea del Kent, che ospiterà quest’anno il torneo dal 15 al 18 luglio, c’è uno spazio temporale infinito lungo 161 anni. Una leggenda costruita passo dopo passo, alimentata costantemente dai più grandi nomi che il nostro sport abbia mai avuto.
Dalle primordiali sfide tra i Park e i Morris al Grande Triumvirato di Vardon, Taylor e Braid, dai primi successi americani di Walter Hagen e Bobby Jones allo storico titolo di Ben Hogan nella sua unica apparizione del 1953, dall’era dei ‘Big Three’ (Gary Player, Arnold Palmer e Jack Nicklaus) ai trionfi di Tom Watson, Seve Ballesteros, Nick Faldo e Greg Norman, star tra il 1975 e il 1993, dall’epoca di Tiger Woods all’indimenticabile duello tra Henrik Stenson e Phil Mickelson a Troon, dalla prima emozionante vittoria italiana di Francesco Molinari a Carnoustie sino a quella altrettanto magica di Shane Lowry, eroe in terra d’Irlanda al Royal Portrush.
Impossibile elencarli tutti i ‘Champion Golfer of the Year‘, così vengono definiti ufficialmente dal Royal and Ancient Golf Club i vincitori dell’Open Championship dal 1860 a oggi, ma una cosa è certa: non esiste titolo o affermazione al mondo che abbia più valore e peso specifico di questo.
La spiegazione è semplice: se ambisci all’eccellenza, ad essere davvero considerato un numero uno, ad avere il rispetto di tutto il gotha, allora lo devi dimostrare soprattutto là dove tutto ebbe inizio, sui primordiali, selvaggi e inimitabili links britannici.
Un sogno chiamato Claret Jug
Lo sapevano bene i primi professionisti statunitensi, che attraversarono nel 1921 in nave l’Atlantico a caccia del sogno inverso, dimostrare di essere golfisticamente superiori ai cugini britannici anche sul loro suolo. E lo sanno perfettamente, ieri come oggi, tutti i più grandi top player internazionali. Domare i percorsi plasmati dalla natura e sferzati dal vento prima ancora dei propri avversari è la chiave per la gloria eterna.
Quando Phil Mickelson nel 2013 riuscì a Muirfield a sollevare finalmente per la prima volta in carriera la Claret Jug con già in bacheca trionfi e successi in ogni angolo del mondo dichiarò: “Questo titolo ha un significato diverso: ho dimostrato a me stesso e a tutti di essere un giocatore completo. Se non ti imponi su questi campi e in questo major, il Major del golf, non potrai mai essere considerato davvero parte indelebile della storia di questo sport”.
Un appuntamento irrinunciabile
Dal 1860 The Open è l’appuntamento fisso e irrinunciabile di ogni mese di luglio. Nella sua ultracentenaria storia solo in tre occasioni non è stato disputato. La prima nel lontano 1871, più per un problema logistico, dopo che Young Tom Morris si portò a casa definitivamente la Challenge Belt, il primo iconico trofeo in palio, una cintura di pelle rossa con stemma in argento, vinta tre volte consecutive.
In attesa di stabilire quale fosse il nuovo trofeo, Prestwick, l’Honourable Company of Edinburgh Golfers e il Royal and Ancient Golf Club decisero quindi di non disputare l’edizione del 1871. L’attuale simbolo dell’Open, la Claret Jug, commissionata dai tre circoli che allora ospitavano a rotazione il torneo, fu realizzata solo alla fine del 1872 e consegnata per la prima volta al vincitore dell’edizione del 1873, sebbene il primo nome inciso sul suo basamento sia quello di Young Tom Morris, che vinse nel 1872 e a cui fu invece consegnata solo una medaglia in argento.
L’originale Golf Champion Trophy, così viene chiamata la Claret Jug ufficialmente, risiede in pianta stabile dal 1928 nella clubhouse del Royal and Ancient Golf Club di St Andrews insieme alla Challenge Belt, donata nel 1908 dalla famiglia Morris.
Il secondo e terzo stop dell’Open arrivarono nei tragici anni della Prima e della Seconda Guerra Mondiale. Il torneo non fu così disputato dal 1915 al 1919 e dal 1940 al 1945. Nel 1946 la 75esima edizione fu vinta dal grande Sam Snead, che mise fine a un dominio britannico che durava da sei tornei.
Lo stop per la pandemia
Ben 74 edizioni dopo non una guerra mondiale ma una devastante epidemia planetaria ha obbligato l’Open a un nuovo doloroso stop. L’edizione 2020, a differenza degli altri major, è stata infatti cancellata e non rimandata alla seconda parte dell’anno solare.
Impossibile ripianificare una macchina organizzativa impressionante come quella dell’Open Championship senza poter contare sui mesi estivi, quelli indispensabili per garantire un evento all’altezza dei suoi standard, decisione seguita a ruota da un altro simbolo dello sport britannico per eccellenza, Wimbledon.
Passata la prima dolorosa ondata della pandemia, il golf mondiale è così ripartito orfano della sua pietra miliare, posticipato di un anno solare sempre nella stessa sede prevista per il 2020, il Royal St. George’s.
L’aria frizzante dell’Open Championship è ormai dietro l’angolo e la voglia di vedere una nuova pagina di storia alle stelle. Dall’Irlanda del Nord The Open torna in Inghilterra per la 51esima volta, la 15esima nel circolo di Sandwich, il più frequentato dal major tra quelli della rota, scozzesi ovviamente esclusi.
La 15esima volta del Royal St. George’s
Si torna su un links che ha scritto pagine indelebili, incoronando campioni entrati nella leggenda. Qui hanno sollevato la Claret Jug gente del calibro di Harry Vardon, Walter Hagen, Henry Cotton, Bobby Locke, Sandy Lyle, Greg Norman e per ultimo, dieci anni fa, Darren Clarke.
Ma è stato anche teatro di una delle più grandi sorprese della storia dei major, quando nel 2003 il numero 396 del mondo, Ben Curtis, partì dalle qualifiche per imporsi davanti a tutto il gotha del golf alla sua prima apparizione in un torneo dello Slam.
Fondato nel 1887 da un celebre chirurgo di quei tempi, Laidlaw Purves, il Royal St. George’s si sviluppa in una meravigliosa cornice di dune selvagge, plasmate dalla natura e dal vento. Molte delle sue buche presentano colpi ciechi o parzialmente ciechi, sebbene questa caratteristica sia stata leggermente ridotta attraverso diverse modifiche nel corso degli anni.
Tra i campi della rota che ospitano l’Open Championship è celebre per avere il bunker più profondo, quello della 4, un tostissimo par 4 di 454 metri. Ian Fleming, il celebre scrittore inglese inventore di James Bond, ambientò nel 1959 proprio al Royal St. George’s (sotto lo pseudomino di Royal St. Marks) una parte di uno dei suoi romanzi più famosi, Goldfinger. Grande appassionato di golf, quando si spense nel 1964 era Captain in carica del circolo.
Un’edizione incerta più che mai
L’edizione numero 149 si presenta come una delle più incerte degli ultimi anni. La vittoria di Jon Rahm allo U.S. Open ha riportato lo spagnolo sul tetto del mondo dopo una breve parentesi di sole quattro settimane nel 2020. Il Rahm di oggi è però un giocatore diverso, cresciuto esponenzialmente anche attraverso gli ostacoli che si incontrano nel cammino per arrivare ai vertici.
La vicenda del Memorial e la clamorosa esclusione per Covid dal torneo che stava dominando con sei colpi di vantaggio a 18 buche dal termine gli hanno, per sua stessa ammissione, fatto scattare una scintilla. Ma non negativa, come spesso gli era capitato in passato, palesemente fuori controllo emotivo quando le cose iniziavano a non andare nel verso giusto. Oggi Rahm è un giocatore non solo solido tecnicamente ma anche mentalmente.
È Rahm il favorito?
A Torrey Pines ha saputo aspettare il suo momento e, come i campioni di razza, ha colpito nell’istante letale, quello decisivo. Si è finalmente sbloccato anche nei major e ama i links dove sinora ha tutt’altro che sfigurato (11° al Royal Portrush nel 2019, ha vinto due Irish Open nel 2017 e 2019).
Come tutti gli iberici si esalta nelle difficoltà e nelle condizioni estreme e il tocco nei colpi al green non gli manca di certo. La sua dedica dello U.S. Open a Seve Ballesteros, il suo idolo e punto di riferimento, non è banale.
Seve ha costruito la sua grandezza sui links dell’Open Championship e lì vuole arrivare Jon, per tenere vivo il ricordo del più compianto giocatore di golf dell’era moderna. Sara battaglia vera, bellissima e intensa, come solo queste latitudini sanno regalare. Una battaglia in cui i nostri azzurri, reduci da uno straordinario U.S. Open, a partire da Guido Migliozzi, saranno anche loro in prima fila e non semplici comprimari.
Tre anni fa, dopo il trionfo di Francesco Molinari a Carnoustie, Golf & Turismo titolò in copertina: “È tutto vero!”. Oggi quel sogno trasformato in realtà da Chicco è inciso nel basamento della Claret Jug e nella storia del golf. Non è più tempo di sogni ma di certezze, quelle di chi sa di avere dentro di sé tutto quanto serve per lasciare un altro indelebile segno.