Alla parola U.S. Open di Winged Foot immediatamente si pensa alla cocente delusione di Phil Mickelson del 2006.
Da ieri però il nome è cambiato e si chiama Bryson DeChambeau che non avrà magari il culto della personalità del campione di San Diego (per il momento) ma il suo trionfo ha qualcosa di epocale.
Ecco i punti salienti che hanno reso la 120° edizione dello U.S. Open, un major indimenticabile.
Bryson è più sostanza che stile
È facile lasciarsi distrarre da tutti rumors che girano attorno alla figura di DeChambeau.
Dal suo swing anti-convenzionale, alla sua ricerca maniacale sulla lettura delle sue mappette. Dai litigi con Koepka via social alla sua dieta a base di frullati proteici e l’aumento di massa corporea.
Ma con la vittoria a Winged Foot non si può negare che il suo curriculum sia di livello mondiale: vincitore US Amateur, NCAA Championship con la squadra universitaria, 7 vittorie sul PGA Tour e il trionfo più che meritato al 120° U.S. Open. E tutto questa all’età di 27 anni.
Nonostante tutti i discorsi sulle distanze siderali di DeChambeau dal tee, domenica il suo compagno di gioco Matt Wolff lo ha superato un paio di volte. Tony Finau e Cam Champ fanno più o meno la stessa distanza Bryson, e Dustin Johnson e Brooks Koepka sono solo una tacca sotto.
Ciò che separa DeChambeau dagli altri è un impegno al limite del fanatismo.
Mentre Finau e DJ hanno preferito rinunciare a parecchi metri prediligendo un gioco più conservativo, DeChambeau ha attaccato senza sosta dalla prima all’ultima buca in tutti e quattro i giorni di gara. Non è solo fiducia la sua, è convinzione.
Preferisce tirare più lungo possibile in modo da lasciarsi sempre un ferro corto al green indipendentemente che la pallina finisca nei rough impossibili di Winged Foot. Questo è esattamente ciò che rende questa vittoria così eccitante. Bryson crede nelle sue capacità e dà spettacolo sempre e comunque. Reinventa un nuovo tipo di gioco e non ha paura delle critiche che gli pioveranno addosso.
I campi dello U.S. Open, come eravamo abituati a vederli, non esistono più
L’incubo di nome Winged Foot è a un punto di svolta. Era palesemente ovvio che la tradizionale configurazione di fairway lunghi e stretti non fosse più sufficiente a tamponare i drive dei giocatori dell’era moderna. I par 5 ormai sono diventati par 4 corti, concedendo sempre numerosi occasioni da birdie, se non eagle.
Anche i green vertiginosi di Winged Foot, che nonostante tutto hanno creato diversi grattacapo, non sono più sufficienti. Purtroppo, la via da seguire non è chiara. Non esiste un golf club sul pianeta abbastanza lungo per sfidare i bombardieri 2020.
8.200 metri sarebbero il minimo indispensabile ma richiederebbero una quantità esorbitante di terreno e acqua per la manutenzione. L’USGA al momento non sembra intenzionata ad allungare i percorsi lasciandoli gli antichi campi incapaci di contenere questa nuova generazione di fenomeni.
L’unica risposta a tutto questo è affidarsi all’erba. Creare rough sempre più impossibili e lavorare sulla velocità dei green rendendo la vita dei campioni sempre più difficile.
L’USGA ha nove mesi per trovare la giusta chiave di lettura prima della prossima edizione dell’U.S. Open. Ma non sarà facile.
Il giorno di Matt Wolff sta arrivando
Il 4° posto al PGA Championship del mese scorso è stato un incredibile debutto per Wolff in un major. E il risultato ottenuto a Winged Foot non fa che convalidare il suo talento.
Ad appena 22 anni di età e al secondo anno sul PGA Tour, Wolff ha lottato duramente nell’ultimo giro dell’U.S. Open ed è stato semplicemente superato dall’epica prestazione di DeChambeau.
Ma il ragazzo americano, nonostante uno swing che rompe gli schemi classici ai quali siamo abituati, ha una solidità da far invidia ai veterani del Tour. Siamo certi che sarà un vero spasso vederlo giocare accanto a Bryson e ai campioni nei prossimi anni.