Riuscire a dominare gli elementi, i temibili links scozzesi e il peso della storia rappresenta per ogni giocatore l’obiettivo di una carriera. Ad attenderli a Troon c’è la gloria eterna e la coppa per eccellenza del golf mondiale, la Claret Jug.


Luglio 2013, Muirfield. Occhi lucidi, voce rotta dall’emozione, il più grande mancino della storia del golf, Phil Mickelson, così commentava il suo successo al 142° Open Championship subito dopo aver sollevato al cielo la Claret Jug.

“Nella mia carriera ho vinto tanto, tantissimo, e in ogni angolo del mondo. Ma essere riuscito oggi a diventare campione là dove questo gioco è nato, sui links scozzesi, è qualcosa che va oltre ogni trionfo e che mi fa sentire per la prima volta un giocatore finalmente completo”.

Dalla costa est della Scozia, passando per Edimburgo, a quella ovest, il viaggio è breve per raggiungere un’altra icona golfistica, il Royal Troon, a detta di molti il più bello, puro e selvaggio links del mondo. Tre anni dopo quel successo Mickelson scrive proprio a Troon un’altra memorabile pagina dell’Open Championship, ma non a lieto fine come quello di Muirfield.
Henrik Stenson, al termine di uno dei faccia a faccia più emozionanti mai visti in un major, lo supera di un solo colpo alla 18, sollevando lui quella volta la mitica brocca d’argento. “È un privilegio enorme poter tenere tra le mani questo trofeo, un onore essere nominato Champion Golfer of the Year”.

Anche tra i comuni giocatori della domenica vige una legge non scritta: non ci si può definire un golfista nel vero senso della parola se non si è mai messo piede su un links britannico.

Saper dominare il proprio gioco, qualsiasi sia il livello, là dove Madre Natura domina la scena è un’esperienza che non può mancare nella sacca di chiunque ami davvero questo gioco, dai campioni del tour ai normali dilettanti di circolo. E stiamo parlando del puro piacere di misurarsi con se stessi in un contesto in grado di trasportati come d’incanto alle origini del gioco, quando sensibilità, destrezza, abilità e istinto erano elementi prioritari nella preparazione di ogni singolo colpo.

L’Open Championship è fascino, storia, tradizione, è la vera essenza del gioco del golf, è il torneo che, come ha dimostrato Mickelson e tutti gli altri grandi campioni che hanno avuto l’onore di conquistarlo, è in grado di portarti in una nuova dimensione, di dare a una carriera e a una vita un significato che va molto oltre a un semplice successo sportivo.

Il ritorno di Troon

Si torna quindi al Royal Troon, nell’Ayrshire Meridionale, terra di iconici links come quello di Prestwick, il primo campo a ospitare l’Open Championship nel 1860 e sede del torneo per 24 volte sino al 1925. Per Troon sarà invece la decima volta, a otto anni di distanza dall’indimenticabile successo di Stenson, la prima fu vinta nel 1923 da Arthur Havers a cui andò un premio di 75 sterline. Qui hanno sollevato la Claret Jug veri mostri sacri quali Bobby Locke, Arnold Palmer e Tom Watson, e in due occasioni il torneo fu chiuso al play-off (1989 e 2004, con i trionfi rispettivamente di Mark Calcavecchia e di Todd Hamilton). 

L’edizione 2024 dell’Open Championship si presenta da record

Al quarto e ultimo major della stagione maschile, in programma dal 18 al 21 luglio, sono infatti attese circa 250mila persone, numeri impressionanti per qualsiasi altra sede al di fuori dell’inarrivabile Old Course di St Andrews. La R&A ha annunciato una modifica alla buca numero 6, denominata Turnberry, che in occasione del torneo sarà portata a 623 yard, ovvero 570 metri. L’allungamento di 22 yard la convertirà così nella buca più lunga di sempre giocata a un Open Championship. Diametralmente opposta all’iconica buca 8, detta Postage Stamp, par 3 di soli 112 metri che potrebbe essere addirittura accorciata a meno di 100 yard (circa 90 metri) nei giorni di gara, diventando in questo modo la più corta nella storia del major britannico. Rispetto all’edizione del 2016 sono stati realizzati nove nuovi tee e il totale del percorso raggiungerà le 7.385 yard, 6.752 metri.

Questa 152esima edizione si presenta con molti interessanti spunti alla vigilia. La prima parte di stagione ha regalato uno Scottie Scheffler inarrivabile che, al momento di andare in stampa, ha messo insieme ben sei titoli stagionali, tra cui il Masters. Nell’era moderna il record appartiene a Tiger Woods e a Vijay Singh, che rispettivamente nel 2000 e nel 2004 portarono a casa ben nove titoli del PGA Tour. Fuori portata il record assoluto appartenente però a un’altra epoca, quello di Byron Nelson, che nel 1945 conquistò 18 titoli nella stessa stagione. I primi tre major del 2024 ci hanno regalato altrettanti differenti campioni, il numero 1 del mondo ad Augusta, Xander Schauffele al PGA di Valhalla, al primo titolo Slam in carriera, e Bryson DeChambeau, al secondo successo nello U.S. Open a Pinehurst dopo quello del 2020 a Winged Foot.

Bryson Dechamebeau riuscirà in una nuova impresa?

Proprio quest’ultimo ha dimostrato di essere il giocatore più ‘in palla’ nei major 2024, sia in termini di score cumulativo sia come piazzamenti (6° ad Augusta, 2° a Valhalla e 1° a Pinehurst). Un Bryson che ha incantato non tanto per la sua impressionante lunghezza ma per un gioco corto sopraffino e per la grande maturità con cui sta vivendo questa fase della sua carriera, una nuova dimensione più libera, scanzonata e leggera che lo ha riportato, successi sportivi a parte, ad essere indiscutibilmente il più amato e idolatrato campione del momento.

Troon attende però la risposta dai suoi di eroi, quelli britannici e continentali, con in testa Rory McIlroy, atteso a una risposta di carattere dopo la tremenda delusione dello U.S. Open a Pinehurst, buttato al vento nelle ultime tre buche. Per il nordirlandese sarà l’ennesima occasione di riscatto a dieci anni esatti dalla sua prima e al momento unica Claret Jug, vinta al Royal Liverpool, un mese prima di trionfare ad agosto di quello stesso anno anche nel PGA Championship a Valhalla, quarto e ultimo acuto nei major. A 35anni il nordirlandese non è certo all’ultima spiaggia negli Slam ma ha bisogno di ridare slancio e motivazioni al resto della sua carriera dopo l’ultima terribile batosta di Pinehurst. L’aria dei links e il tifo dei fan britannici può aiutarlo a uscire da una situazione ormai diventata difficile da gestire soprattutto dal punto di vista psicologico.

L’ultimo europeo a vincere l’Open Championship risale ormai all’epoca pre-Covid. Fu l’eroe di casa, l’irlandese Shane Lowry, ad imporsi al Royal Portrush.

Al via a Troon ci saranno anche Francesco Molinari, Champion Golfer of the Year nel 2018 a Carnoustie, e Guido Migliozzi, grazie al successo nel KLM Open. Ha ottime possibilità anche Matteo Manassero, che al momento di andare in stampa è tra i primi cinque giocatori del Ranking della Race to Dubai non ancora qualificati per il major britannico che entreranno nel field alla fine dell’European Swing. Altri tre posti saranno infine in palio nel Genesis Scottish Open. Gli Azzurri porteranno a Troon un elemento determinante: la loro innata capacità di saper gestire al meglio Madre Natura e le grandi insidie di uno dei più temibili links dell’Open Championship. Del resto, la Scozia è la terra dei cuori impavidi.

Tee time dei giri di prova campo