Nove anni fa il Royal Liverpool celebrava il nuovo sovrano della Claret Jug, Rory McIlroy da Holywood. La storia del più grande talento golfistico europeo della ‘beat generation’ era in pieno corso. Fresco venticinquenne, numero 1 del World Ranking, quattro titoli sul PGA Tour già in tasca, altrettanti sull’European Tour e tris di vittorie pure nei major, con l’Open Championship di Hoylake, a cui solo un mese dopo sarebbe seguito il quarto alloro negli Slam, il PGA Championship a Valhalla.
Non c’era persona al mondo in quell’estate del 2014 che non scommettesse sul fatto che il riccioluto fenomeno nordirlandese sarebbe arrivato in pochi anni in doppia cifra di titoli nei major. Bastava vederlo giocare. Bastava ascoltare il suono purissimo della sua palla all’impatto, unico tra i giocatori del Tour, per capire che si era di fronte al solo, degno, erede naturale di chi proprio a Liverpool otto anni prima aveva alzato la sua terza e ultima Claret Jug, Tiger Woods.
Da quel soleggiato pomeriggio di Hoylake, davanti a un pubblico in visibilio, sono passati nove anni in un batter d’occhio. Uno spazio temporale enorme, riempito da McIlroy con una miriade impressionante di titoli tra PGA e DP World Tour. Senza dimenticare epiche prestazioni in Ryder Cup, che gli sono valse altre due vittorie, a Gleneagles e a Parigi, dopo quelle del Celtic Manor e di Medinah.
Campione FedEx Cup per tre volte (2016, 2019 e 2022), quattro della Race to Dubai (2012, 2014, 2015 e 2022), la storia di McIlroy è un inno alla vittoria, il sogno di qualsiasi giocatore di golf al mondo. Ma anche se può sembrare paradossale, pure per un vincente come lui un ‘ma’ esiste, e per certi versi è diventato negli anni sempre più opprimente.
Il 4 maggio scorso McIlroy ha compiuto 34 anni, è felicemente spostato con Erica Stoll dal 2017 da cui ha avuto una splendida figlia, Poppy. Nella sua bacheca brillano 36 trofei, 23 sul PGA, 15 sul DP World, uno sull’Asian e PGA of Australasia più altri quattro successi.
A Liverpool torna a distanza di nove anni dalla sua prima Claret Jug ma ci arriva con gli stessi major vinti a chiusura di quella brillante stagione, quattro. La sua striscia vincente negli Slam si è paradossalmente fermata proprio a quel 2014, diventando una sorta di strana e curiosa maledizione da major che ormai si porta sulle spalle in modo piuttosto scomodo.
Intendiamoci, nessuno discute il McIlroy giocatore e quanto ha fatto o sarà ancora in grado di fare, ma qualcosa nelle sue certezze si è certamente inceppato, almeno nei grandi tornei di peso. Di Slam dal 2007, anno in cui è passato pro dopo il 42° posto a Carnoustie da amateur, ne ha disputati 58. A parte i quattro successi giunti dal 2011 al 2014 nel picco della sua prima grande esplosione ai vertici mondiali, ha messo in fila una serie infinita di Top Ten. Sette al Masters, otto al PGA e allo U.S. Open, altri sei all’Open Championship, tra cui spiccano ben tre secondi posti in ognuno degli Slam a parte il PGA of America, e quattro terzi.
Non c’è vigilia di major senza ormai la solita ricorrente domanda: sarà finalmente questa la volta di Rory? Del resto, a parte il Masters di quest’anno, McIlroy dal 2022 a oggi ha messo insieme sei Top 10 negli ultimi sette major giocati. Due secondi posti, l’ultimo a Los Angeles lo scorso mese dietro solo all’outsider di turno, Wyndham Clark.
Il campo
Il Royal Liverpool torna così ad ospitare l’Open Championship per la tredicesima volta nella sua ultracentenaria e gloriosa storia. Tra i campi della Rota golfistica sedi passate e presenti del major più antico del golf mondiale soltanto l’Old Course di St Andrews (30 edizioni), Prestwick (24), Muirfield (16) e Royal St George’s (15) superano Hoylake.
Un campo che, come ben ha descritto Derek Duncan di Golf Digest nel pezzo che troverete nelle prossime pagine, non sarà certo tra i più iconici e spettacolari ma che ha una caratteristica ben precisa: quella di premiare sempre e soltanto i migliori giocatori del momento. Così fu per Tiger Woods nel 2006 e per lo stesso McIlroy nel 2014, ma anche per l’australiano Peter Thompson nel 1956, che a Liverpool vinse la sua terza Claret Jug di fila, e per l’argentino Roberto De Vicenzo nel 1967. Questi furono gli ultimi quattro giocatori ad imporsi a Hoylake dal dopoguerra ad oggi.
Se pensiamo allora ai giorni nostri, Scottie Scheffler, Jon Rahm, Brooks Koepka e mettiamoci pure il campione uscente Cameron Smith a parte, nella ristretta cerchia dei favoriti Rory McIlroy un posto lo ha di diritto e con pieno merito.
Ora toccherà a lui sfatare un tabù fastidioso e centrare finalmente il suo quinto major. Potenza, tecnica e talento non gli sono mai venuti meno, anzi. Per molti versi il McIlroy di oggi è più maturo e forte di quello sbarazzino di un tempo. L’aria britannica può essere il suo toccasana e il pubblico di Liverpool sarà tutto dalla sua parte.
Avversari a parte dovrà fare i conti con sé stesso e saper controllare al meglio i momenti chiave del torneo. Rivederlo nove anni dopo ‘Champion Golfer of the Year’, questo il titolo storicamente usato per introdurre il vincitore dell’Open Championship, sarebbe allo stesso tempo l’epilogo perfetto e l’inizio di una nuova entusiasmante storia di successi, destinata a durare ancora per molti anni.