U.S. Open capitolo 120
Il romanzo americano dello U.S. Open riparte da quel putt imbucato domenica 16 giugno 2019 da Gary Woodland, l’uomo che non ti aspetti, alla 18 di Pebble Beach, quando i giochi ormai erano praticamente fatti.
Un birdie finale per pura gloria, dopo che il grande favorito della vigilia, Brooks Koepka, aveva appena alzato bandiera bianca, firmando un deludente par all’ultima buca.
Dal sogno di uno storico triplete di ‘Mr. Major’ Koepka, che aveva dominato le ultime due edizioni (a Erin Hills nel 2017 e a Shinnecock nel 18), alla favola a lieto fine di Woodland, al suo primo titolo in carriera in un major al trentesimo tentativo.
Abolito il pubblico e le qualifiche causa Covid-19
La 120esima edizione del major più democratico del golf professionistico nasce però quest’anno sotto prospettive molto diverse
Impossibile gestire qualcosa come 120 eventi di qualifica nell’attuale situazione sanitaria mondiale. L’unico modo per salvare lo U.S. Open 2020 a Winged Foot, originariamente in programma dal 18 al 21 giugno, è stato quello di modificare il regolamento di accesso al torneo e di farlo a porte chiuse (mediamente il torneo ospita 40/45mila persone al giorno), prediligendo esclusivamente le exemption conquistate per meriti sportivi sul campo.
La USGA, organizzatrice del torneo, ha deciso inoltre di lanciare un piccolo salvagente anche al malconcio European Tour, costretto a cancellare gran parte del suo calendario stagionale per la pandemia, inventandosi un premio per i migliori dieci dello UK Swing, che hanno così staccato il biglietto per la quattro giorni di Winged Foot (17-20 settembre).
Paratore, unico italiano in gara
Tra questi c’è meritatamente anche Renato Paratore, vincitore a fine luglio del British Masters a Close House, il suo secondo titolo in carriera sull’European Tour dopo il Nordea Masters del 2017. Per Paratore si tratta di una bellissima conferma, dopo il battesimo assoluto allo U.S. Open dello scorso anno a Pebble Beach, dove non superò il taglio a metà gara.
Sul West Course disegnato nel 1923 da A.W. Tillinghast (lo stesso architetto che ha dato vita a capolavori come Baltusrol e Bethpage Black), rivisitato nel 2015 da Gil Hanse, non ci sarà invece Francesco Molinari. L’azzurro ha deciso di posticipare ancora il suo rientro alle competizioni, da cui manca ormai dal 12 marzo scorso (primo giro del poi interrotto Players Championship causa Covid).
Chicco, dopo undici anni a Londra, ha da poco deciso di traslocare con l’intera famiglia in California, rinunciando di fatto a partecipare sia al PGA Championship di inizio agosto che al prossimo U.S. Open, i primi due major di questa anomala stagione segnata dalla pandemia.
Il numero uno azzurro ha però voluto subito tranquillizzare tutti, appena ufficializzata la notizia del suo forfait a New York, con un tweet: ” Tornerò tra poche settimane – ha detto -, sono pronto per ripartire. Sto bene, aspettatemi ancora un po’, non preoccupatevi. È una fase di transizione e voglio dedicargli il giusto tempo”.
Il lungo stop ha però inevitabilmente fatto perdere al numero uno azzuro molte posizioni nel World Ranking (al momento di andare in stampa è numero 50 del mondo, dopo che aveva chiuso il 2019 al 18° e raggiunto la quinta posizione, record assoluto per un italiano, nel settembre del 2018).
La sua ultima gara completa risale al WGC Mexico Championship del 23 febbraio scorso, torneo chiuso al 53° posto. Ha sopperito alla lunga assenza lavorando duramente come al solito con il suo team su ogni minimo dettaglio del gioco: la speranza di tutto il golf italiano è quella di rivederlo tornare presto ‘Laser Frankie’, il giocatore che ha letteralmente incantato il mondo intero solo due anni fa.
Si riparte da Winged Foot
Il club di Mamaroneck, a poco più di mezz’ora di macchina da Manhattan, direzione nord, ospita per la sesta volta nella sua storia lo U.S. Open.
L’ultima, nel 2006, viene ricordata come una delle più incredibili edizioni del torneo americano.
Si impose a sorpresa Geoff Ogilvy con un totale di 5 colpi sopra il par, ma prima Colin Montgomerie e poi Phil Mickelson buttarono al vento una vittoria già scritta, firmando rispettivamente bogey e doppio bogey all’ultima buca, lasciando la coppa nelle mani del giovane incredulo australiano.
Lo score di Ogilvy è il secondo più alto fatto registrare da un vincitore dello U.S. Open nell’era moderna dopo quello di Hale Irwin nell’edizione del 1974 (+7).
Su questi fairway hanno vinto il torneo leggende come Bobby Jones (1929), Billy Casper (1959), Fuzzy Zoeller (1984), così come Davis Love III, che qui si impose nel 1997 nel PGA Championship.
Winged Foot è un grande classico tra i campi sede dello U.S. Open: solo Oakmont (9) e Baltusrol (7) hanno ospitato il torneo più volte dal 1895 a oggi.
Celebre per i suoi terribili green, il West Course viene trasformato per ospitare lo U.S. Open da par 72 a 70, con la buca 9 che passa da par 5 a 4, e con i suoi 470 metri, diventa uno dei più lunghi par 4 nella storia dei major. La buca 12, par 5 di 585 metri, è la sesta buca più lunga mai giocata nella storia di un torneo del Grande Slam.
Precisione sì quindi, ma anche tanta potenza e controllo serviranno ai 144 protagonisti di questa 120esima edizione per domare i 6.172 metri e portare a casa da Winged Foot il loro personale sogno americano.