C’è a Verona un museo straordinario. Che non c’entra con la dinastia scaligera. Neppure con i turbamenti di Romeo e Giulietta o le passioni melomaniache degli aficionados dell’Arena. È dedicato interamente al golf.
Nella sua casa a un ferro 7 dall’uscita Verona Sud dell’Autostrada Torino-Venezia, l’avvocato Marco Bisagno, in ricordo della passione di suo figlio, da una ventina di anni ha cominciato a raccogliere, studiare e catalogare ferri e bastoni che hanno fatto la storia del golf dal 1450 ad oggi.
E a inseguire per mezzo mondo i libri sull’arte di forgiare l’attrezzatura golfistica, in pratica tutti quelli che sono stati pubblicati da quando Gutenberg ha inventato i caratteri mobili. Una collezione, quest’ultima, che probabilmente non ha rivali al mondo. Il museo nel suo insieme, invece, è la struttura più grande dell’Europa continentale, seconda solo al Museo di St. Andrews che segue con affettuosa partecipazione lo sviluppo dell’iniziativa veronese.
Nelle stanze del “Museo Privato Bisagno della Storia e dell’Antiquariato del Golf” trovano posto 1.500 bastoni, compresi quelli usciti dalle mani leggendarie di Tom Morris e quelli che diventavano docili strumenti di vittoria in quelle sapienti di Ben Hogan e Jack Nicklaus.
In intelligenti espositori cilindrici in plexiglass sono catalogate ed ordinate più di 8.000 palline logate. Alle pareti fotografie e documenti, compresa una rara riproduzione di una miniatura del XVI secolo, quasi certamente la prima immagine golfistica mai apparsa a questo mondo.
Numerose le nuove acquisizioni in tempi recenti.
A dare una mano a Marco Bisagno ha pensato Donato Di Ponziano. Il celebre uomo di golf italiano, ha fatto approdare nel museo di Verona varie memorabilia raccolte nel corso degli anni, durante i più importanti avvenimenti del golf mondiale. A cominciare dalla Ryder Cup.
La storia del museo viene da lontano. Un incidente stradale nel 1999 ha strappato alla vita un ragazzo solare, una brillante carriera da avvocato già avviata e una vorace passione per il golf. Quel ragazzo aveva 30 anni e si chiamava Davide Bisagno. La sua scomparsa ha stravolto la vita di Marco e Iole, i genitori che, ricambiati, lo adoravano.
La morte di un figlio è il dolore più atroce che la vita possa dispensare. Non toglie solo gli affetti: sradica la speranza. I figli sono i sogni che camminano, il domani, il futuro, la parte di noi destinata a sopravviverci. Nel nostro Dna è scritto, in qualche sequenza di amminoacidi, che dovremo rassegnarci un giorno a seppellire i nostri genitori. Ma da nessuna parte c’è il seppur minimo indizio che le parti possano essere invertite. È solo un incubo, che ti assale la sera quando ritardano senza avvisare. E che i giri della chiave nella toppa scacciano senza lasciare troppe scorie.
Che la morte di un figlio sia un evento contro natura, opposto alle leggi di questo mondo, lo testimonia perfino il vocabolario: nei secoli ha coniato parole appropriate per designare altri lutti (“orfano” o “vedovo”, ad esempio), ma mai si è preoccupato di individuare un termine che rendesse la situazione di un padre o di una madre ai quali è stato strappato un ragazzo.
Se è vero che la morte, nella sua intima essenza, alla fine non è altro che l’ineluttabile assenza del domani, quella di un figlio in qualche modo ferma anche la vita dei genitori, svuotando le loro esistenze, prosciugando i progetti, spesso privandoli della voglia di vivere e di lottare, costringendoli in alcuni casi a nutrirsi di ricordi, essendo stati scippati dei loro sogni.
È per questo che il Museo Bisagno è qualcosa di più di un museo, è un’eredità d’amore, una rivincita sul destino. Il ricordo, affidato al futuro, di una famiglia che ha saputo resistere. Concedendosi lacrime copiose, come è giusto che sia. Ma senza lasciare entrare in casa la disperazione. Quell’incidente ha tolto a Marco e Iole Bisagno il loro unico figlio. Non la fiducia e la voglia di giocarsi in prima persona. Magari inseguendo libri o bastoni da golf. Da offrire allo sguardo ammirato dei visitatori. Come fosse un ultimo regalo, postumo, del loro Davide.