Rookie of the Year del pga tour 19/20 è il secondo giocatore nella storia della FedEx Cup dopo Schauffele a chiudere al quinto posto il ranking nell’anno dell’esordio.
Conosciamolo meglio in queste pagine, dove racconta in prima persona come il suo grande sogno sia diventato realtà.
Sono originario del New Jersey. La mia famiglia, quando avevo otto anni, decise di trasferirsi a Dallas, in Texas. Già a quell’età amavo follemente il golf: mia madre lavorava a tempo pieno e le mie tre sorelle, Callie, Sara e Molly, erano impegnatissime tra gare di nuoto e tornei di golf così mio padre, che aveva più tempo libero, mi accompagnava spesso a tirare palline in un campo pratica. I miei avevano però bisogno di trovare in fretta un luogo dove potermi lasciare senza particolari preoccupazioni e fu allora che incontrammo Randy Smith, professionista e coach, e iniziai a frequentare il Royal Oaks Country Club, alle porte di Dallas.
Per un bambino di otto anni significava avere un posto fantastico dove trascorrere intere giornate giocando.
Un paio di anni fa ho però scoperto che quello che sembrava un bellissimo sogno diventato realtà è stato invece un passo delicato nella vita della mia famiglia. Mio padre fu infatti costretto a chiedere un prestito per farmi entrare al Royal Oaks: i miei hanno fatto enormi sacrifici per assecondare la mia passione e non hanno mai voluto parlarmene, l’ho saputo solo qualche tempo fa proprio da loro stessi. È il più grande regalo che un figlio possa ricevere dai propri genitori, un gesto d’amore incondizionato.
Al Royal Oaks ho trascorso tutta la mia infanzia: Randy Smith era a quei tempi il coach di alcuni campioni del Tour tra cui Justin Leonard. Io ero sempre attaccato a loro: li ascoltavo, li osservavo e, quando me lo permettevano, giocavamo addirittura qualche buca insieme. È lì che ho capito che il mio futuro era scritto: volevo essere uno di loro, diventare un giocatore di Tour.
Fino alle superiori ho praticato diversi sport tra cui football, baseball e basket. Poi ho iniziato a dedicarmi solo al golf, l’unica disciplina che amavo a prescindere da tutto.
Quando mi sono iscritto all’University of Texas volevo rimanere per quattro anni: laurearmi è sempre stato uno dei miei grandi obiettivi. Alcuni miei coetanei iniziavano a ottenere importanti successi e passarono subito pro, lasciando gli studi a metà: io volevo andare avanti e terminare quello che avevo intrapreso. Negli anni del college mi sono persino qualificato un paio di volte per lo U.S. Open, con mia sorella Callie, ottima golfista della Texas A&M, che mi ha fatto da caddie in entrambe le occasioni. Non mi sono mai trovato a dover gestire dei risultati clamorosi o un improvviso successo per cui non ho cambiato i miei piani originali: il college mi piaceva e giocare in quegli anni a quei livelli era quello che volevo e che ritenevo più adatto per la mia crescita professionale.
Sono passato professionista così solo dopo essermi laureato, nel giugno del 2018.
Sono stato fortunato a ottenere subito un paio di inviti per il PGA Tour, ma non avevo l’ossessione di volerci arrivare a tutti i costi e subito. Volevo fare esperienza e così decisi di provare il Mackenzie Tour in Canada. Mi iscrissi però con 15 minuti di ritardo e rimasi in lista d’attesa. A quei tempi ragionavo così: “Non sono entrato? Non importa, dove posso giocare quindi?”.
Farò tutto quello che è necessario per realizzare il mio sogno mi ripetevo: non avevo uno status, quindi iniziai dal basso, con le qualifiche i lunedì, gli eventi dei mini circuiti e la Qualifying del Korn Ferry Tour in autunno. Entrai nel circuito satellite statunitense e iniziammo la stagione alle Bahamas. Ero partito per la gara in compagnia di un altro pro, Vince Whaley e del suo caddie. Arrivati al noleggio per ritirare la macchina ci accorgemmo che non potevo guidarla in quanto non avevo ancora compiuto 25 anni. Non potevamo farne a meno così feci inserire i dati di mio padre, che si chiama come me e ha un trascorso anche lui da pro. Per poter scendere in campo nella mia prima gara sul circuito ho davvero dovuto inventarmi qualcosa di particolare…
Non sono un grande amante dei social media: li guardo occasionalmente, ma quando lo faccio, sono abbastanza critico con quello che la gente posta, mi sembra un mondo irreale per molti aspetti. I social media possono essere un fantastico luogo d’incontro e aggregazione, ma io non credo che la gente sia davvero interessata a sapere cosa faccio nella mia vita privata. Ho i miei amici intimi con cui amo trascorrere il tempo libero: se qualcosa di importante accade lo sapranno per primi da me direttamente.
Ci sono certi obiettivi che mi sono posto per la mia carriera ma non voglio fare progetti troppo a lungo termine, preferisco rimanere concentrato sui piccoli passi e su quanto sto facendo ora.
Gioco ogni torneo con l’obiettivo di vincere, sempre. Come quando ero un ragazzino alle prime armi al Royal Oaks: ho la stessa voglia di vincere di allora, che si tratti di una garetta tra amici o di un evento del Tour.
Quando mi alleno o gioco qualche buca spesso mi imbatto in giovani che mi ricordano la mia adolescenza.
Sono svegli e sanno quando Randy e io stiamo lavorando su qualcosa di importante: si siedono e ascoltano. Alla fine della seduta gli permetto di fare qualche domande: è bello vedere come si illuminano perché è lo stesso che è capitato a me quando davanti avevo i miei idoli, i giocatori del Tour, e in loro rivedo il mio fuoco. Mi sento ancora come mi sentivo alla loro età, quando volevo solo giocare il più possibile e carpire i segreti di coloro che erano famosi. Mi aiuta a capire quanto amo questo sport e quanto sia stato davvero fortunato ad essere arrivato fino a qui.