Ho avuto il piacere qualche settimana fa di essere invitato da una nota banca private a una Pro-Am che si è svolta nello storico circolo di Villa d’Este, “su quel ramo del lago di Como”.
Un piccolo gioiello di manifestazione, magistralmente organizzata da Golf & Turismo, dove a scendere in campo sono stati nove team composti da altrettanti colleghi e tre amateur per squadra.
L’obbiettivo era ovviamente quello di regalare ai dilettanti una giornata di golf memorabile, intervallata da seduta fitting con omaggio di Callaway, melone pack, brunch prima della sirena ufficiale e un pranzo al giro di boa.
Purtroppo, a causa del mio volo alle 19:30, sono dovuto fuggire, perdendomi la premiazione e i saluti finali.
Ogni volta che partecipo a una Pro-Am cerco sempre di riflettere su come rendere proficua la giornata delle persone con cui condivido le 18 buche.
È vero che ogni tanto la classifica individuale spinge noi professionisti a cercare di fare il meno possibile, portando così a casa un premio in denaro (è il nostro lavoro).
Questo però non dovrebbe mai isolarci, abbandonando così i nostri “compagni di merende” al loro destino, spesso agonizzanti tra slice, flappe, un bosco impenetrabile e un bunker maledetto.
Negli ultimi anni in Italia, grazie alla gestione PGAI e finalmente alla consapevolezza che le Pro-Am devono essere una giornata di evoluzione golfistica per gli amateur, è quasi sparita la classifica individuale a fronte di un gettone di presenza, e quindi la totale disponibilità dei professionisti a dedicarsi al team.
Sono fermamente convinto che la Pro-Am sia il modo migliore per un dilettante, a prescindere dal suo handicap, per migliorare non solo il suo swing ma l’atteggiamento e la strategia in campo, con conseguente ottimizzazione dei colpi.
Il fatto stesso che una squadra è composta da un maestro e 3/4 dilettanti dovrebbe (teoricamente) deresponsabilizzare ogni singolo giocatore.
Questo, sempre in teoria, dovrebbe togliere pressione e far giocar liberamente, senza troppi stress o ansie.
Che valore possono avere cinque ore in campo con il proprio coach, calcolando che con una quota di 100 euro non solo hai compreso la lezione ma anche il green fee e magari ti porti a casa anche un bel premio?
Ci sono ancora giocatori, che poi sono gli stessi che non fanno mai lezione, che vedono questo tipo di gara come uno spreco di soldi o un modo per arricchire il maestro.
Sono quelli che ormai identificano il professionista come una sanguisuga, rea di pensare solo a intascare il malloppo, senza arrivare alla verità sullo swing, costringendo (sempre secondo la loro teoria) a non poter mai interrompere il ciclo di lezioni.
È vero che in passato ci sono stati casi di colleghi che hanno vissuto in solitudine la propria giornata di gara, fregandosene altamente dei propri compagni di squadra.
Ma è altrettanto vero che nel 90% dei casi i dilettanti sono scesi di handicap la settimana successiva a una Pro-Am.
Questo perché le informazioni e il supporto ricevuto hanno migliorato di molto il loro gioco, dandogli delle piccole certezze e di conseguenza togliendo parecchi dubbi.
Altro aspetto fondamentale delle Pro-Am è quello che permetterà (secondo me) di far entrare nuovi neofiti, senza farli ‘soffire’ mesi in campo pratica.
La formula Louisiana permetterebbe al nuovo arrivato di vivere 18 buche in compagnia, vedendo con gli occhi come gioca un professionista e gli amateur di ogni livello.
Il suo contributo sarebbe quello di approcciare, puttare, e provare nei par 3 a tirare il primo colpo.
Pensate quale entusiasmo potrebbe accompagnare il neofita al termine della sua giornata di golf, dopo 18 buche vissute in questo modo.
Insomma con un lavoro congiunto delle segreterie, dei professionisti e dei soci/abbonati, il “mezzo” Pro-Am diventerebbe l’arma in più per migliorare il proprio gioco, aumentare il numero dei tesserati, far respirare i circoli con nuovi abbonamenti e gratificare economicamente i maestri della PGAI, che tanto investono sulla loro formazione e preparazione.