Un’affermazione precisa, che non lascia molto all’interpretazione.
Verrebbe subito da pensare a Shane Lowry, a come nel 148° Open Championship riuscì a gestire la paura (disse letteralmente “me la sto facendo sto addosso” la sera precedente l’ultimo giro in conferenza stampa) e ottenere la vittoria a Royal Portrush sul suolo natio.
A Graeme McDowell, nella famosa vittoria dello U.S. Open 2010 a Pebble Beach, che riportava dopo quarant’anni un europeo a vincere il più criticato major d’oltreoceano.
O addirittura a Darren Clark, campione Open Championship 2011, pilastro in Ryder Cup per cinque edizioni, 21 vittorie da professionista e protagonista di tante belle storie.
Qui però si tratta di altro, di qualcuno che ha dimostrato di essere la nuova voce del golf.
Una voce attuale per un gioco che è rimasto indietro rispetto ai tempi per decenni. Tiger è stato e sarà sempre il volto del golf, ma Rory McIlroy ha dimostrato di essere quella voce e al tempo stesso il leader di uno sport che sta incontrando diversi problemi nel fare il suo ingresso nel XXI secolo.
Il mese scorso ha criticato la risposta del presidente Donald Trump e il suo atteggiamento nei confronti della pandemia in corso.
“Non è il modo in cui un leader dovrebbe agire”, ha affermato il numero 1 dell’ordine di merito mondiale, “è necessaria maggior diplomazia, e non credo che ne stia facendo uso, specialmente in questi tempi.
Dire che stiamo amministrando il maggior numero di test al mondo come se fosse una gara è qualcosa di semplicemente terribile” ha tuonato McIlroy che di lì a poco sarebbe sceso in campo per contribuire insieme a Dustin Johnson, Rickie Fowler e Matthew Wolf alla raccolta di fondi per il Covid-19 a Seminole.
Sicuramente Rory continua a utilizzare la sua posizione di stella del golf internazionale per affrontare questioni che molti altri giocatori spesso rifuggono.
Qualche esempio? Partiamo dalle Olimpiadi di Tokyo, con la decisione di voler giocare sotto la bandiera irlandese e non quella della Gran Bretagna, una vera e propria inversione a U rispetto alla partecipazione (mai avvenuta) di Rio 2016.
Nel 2017, con le critiche ai ‘brontosauri’ del Muirfield Golf Club, definendo “osceno” l’aver procrastinato così a lungo l’accesso alle donne sul loro percorso.
Quando nacque la prospettiva di lasciare il PGA Tour per far parte della nuova Premier Golf League, McIlroy fu il primo a rifiutare la proposta di unirsi a una lega con 60 azionisti, tra cui il Fondo di Investimento Pubblico Saudita. Fu poi seguito da Brooks Koepka e da John Rahm.
All’inizio di quest’anno, quando altre stelle come Dustin Johnson, Phil Mickelson e Brooks Koepka hanno scelto di prendere un sostanzioso ingaggio per giocare in Arabia Saudita, Rory ha rifiutato l’offerta di 2,5 milioni di dollari.
Non accettava che le autorità dell’emirato stessero cercando di cancellare, utilizzando lo sport, la loro oppressione dei diritti delle donne e delle minoranze etniche.
Mentre il ritorno di Tiger Woods alla gloria ha suscitato un rinnovato interesse nel gioco, anche il golf ha bisogno di una voce più moderna.
Con McIlroy sembra che i confini stiano cadendo: comprende il potere della sua posizione e il peso delle sue parole.
Mi auguro che continui a essere dalla parte giusta della storia e che il golf possa essere in buone mani seguendo l’esempio di uno dei suoi leader più grandi.