Chiunque giochi a golf prima o poi si è sentito porre almeno una volta questa domanda: “Perché lo fai, cosa ti ha conquistato davvero di questo sport?”
La risposta, seppur la passione di ogni golfista, professionista o amateur che si tratti, sia nata nei modi e nei tempi più disparati, è pressoché sempre la stessa. “Perché non esiste nessun’altra disciplina al mondo che ti permetta ogni volta di affrontare una sfida tanto entusiasmante quanto unica: combattere contemporaneamente contro sé stessi e i propri limiti, il campo e infine gli avversari, e nel farlo ognuno è il giudice personale e diretto della propria prestazione”.
Una filosofia che racchiude la vera essenza del golf e la sua magia, quella che ha stregato e continua a farlo milioni e milioni di persone in ogni angolo del pianeta. Per primeggiare a qualsiasi livello occorre non solo superare sé stessi ma domare le avversità del percorso, le condizioni atmosferiche e non ultimo i compagni di gioco.
Il campo è il palcoscenico principale, il crocevia del destino golfistico di ogni giocatore. Un teatro capace di regalare gloria, soddisfazioni e successi così come di distruggere ogni ambizione nello spazio di una frazione di secondo. Un concetto questo che accomuna chiunque metta una palla su un tee e giochi 18 buche, da noi mortali giocatori della domenica sino ai professionisti del Tour, tutti accomunati dalla stessa identica missione.
Dici U.S. Open e immediatamente chiunque visualizza un campo che va oltre ogni umana immaginazione. Cito un ricordo personale, emblematico per capire di cosa stiamo parlando: giugno 2004, Long Island, New York. Giri di prova del 104° U.S. Open a Shinnecock Hills, perfido e meraviglioso links. Seguo Sergio Garcia, Adam Scott ed Ernie Els. Mi sistemo sulla tribuna dietro il tee della buca 7, par 3 di 175 metri, mentre un ventaccio insidioso soffia di traverso. ‘Big Easy’ Els gioca per primo: solito impeccabile swing, con quel timing da farti perdere la testa.
La palla parte perfetta, solida, dritta come una spada. Batte subito dopo il bunker frontale a protezione del green, qualche metro abbondante a destra dell’asta. Perfetto penso, tutto calcolato perché la pendenza porti la palla lentamente verso la buca.
Ed ecco l’inimmaginabile: questa inizia a muoversi sì verso l’asta, ma la passa, attraversa tutto il green da destra a sinistra e finisce incredibilmente nel collar dalla parte opposta. Resto incredulo, in attesa di un commento, un gesto che mi faccia capire cosa è successo. Els, con la sua solita flemma, si gira verso Scott e Garcia, abbozza un sorriso e aggiunge: “Beh ragazzi, io un colpo meglio di così a golf non lo so proprio fare…”.
Lo U.S. Open è questo, sudore e sofferenza, il major più difficile da gestire. Capace spesso e volentieri di umiliare il gioco dei migliori del mondo con campi preparati al limite dell’impossibile, in una sorta di guerra psicologica a eliminazione in cui lo spettacolo non è fatto come al solito di eagle e birdie ma spesso di pugnetti alzati per salvare un miracoloso par.
Sarà così anche quest’anno dal 16 al 19 giugno a The Country Club, alle porte di Boston. “È nelle grandi difficoltà che si impongono i migliori” questo il pensiero che da sempre contraddistingue la USGA nella preparazione dello U.S. Open. Una massima che per una settimana avvicina ancora di più i giocatori del Tour ai noi comuni golfisti.
Giocare bene e farlo su un campo considerato abbordabile è un conto ma riuscirci invece su un tracciato tecnico e difficile ha tutto un altro sapore. Del resto questa è l’essenza del gioco del golf ma anche la storia della nostra vita.