Da qualche mese Piero gioca a golf nei fairway del cielo. Lo ha fatto su questa terra con la costanza e la dedizione assoluta che ne hanno caratterizzato la vita intera. Ha cominciato tardi a inseguire palline in campo. Veleggiava verso i settanta.
Sportivo da sempre (maestro di sci, guida alpina, gestore di rifugi, velista), aveva scoperto ferri e bastoni per caso. Manager della Lema, una delle principali e innovative aziende di arredamento italiane, accompagnava a pranzo i visitatori della fabbrica brianzola al Golf Club Villa d’Este, prestigioso, accogliente e vicino all’azienda.
E lì, dalle vetrate del ristorante aveva cominciato a seguire curioso le evoluzioni di quei bizzarri personaggi che trascinavano la sacca verso il green della 18.
Li sentiva confabulare in clubhouse davanti a un aperitivo, raccontare mirabolanti avventure al par 5, confessare con mestizia la flappa alla 11 o il fuori limite alla 4. Racconti che lo incuriosivano e che lo hanno spinto, dopo poco tempo, a chiedere di poter provare. Sotto le cure dei maestri del circolo e coccolato dal caddie master Sergio Arcellaschi, ha cominciato a menare fendenti con il ferro 7 sui tappetini del campo pratica.
Ed è stato subito amore. Per quasi 30 anni ha continuato a inseguire palline sui fairway di mezzo mondo.
Non era un campione, ma si difendeva e, soprattutto, non gli importava. Non era appassionato di gare: la Coppa Fragola e quella del Gestore lo lasciavano del tutto indifferente. Tanto che per tutta la carriera golfistica ha mantenuto l’handicap 28 che aveva dovuto conquistare sul campo, quando le regole d’accesso al golf erano più ostiche di quelle attuali. Giocava con i suoi amici il cui gruppetto, purtroppo, ogni anno perdeva qualche elemento. Lo faceva un giorno sì e un giorno no, secondo una delle innumerevoli regole ferree che si era imposto dai tempi della guerra. Allora servivano a portare a casa la pelle, in seguito sono state fondamentali per ottenere i risultati che si era fissato.
Al golf car si era rassegnato solo da qualche anno. Il Golf dei Laghi, dove si era trasferito da quando era andato in pensione, riserva panorami spettacolari, buche intriganti e colpi sempre diversi. Ma anche qualche buca in salita che costringe il fisico agli straordinari. E giocare a 93 anni suonati è sì divertente e salutare, ma è anche una sfida impegnativa.
È stato lui a spingermi in campo pratica. Quando parlava del volo della palla, del verde del campo, della gioia di una pallina che rimbalza sul fondo della buca gli brillavano gli occhi come a un bambino.
Conoscendo il suo aplomb britannico e il suo innato pudore a far trasparire emozioni e sentimenti, ho immaginato che il golf dovesse essere molto più di uno sport.
“Prova, vedrai che ti conquisterà”. “Ma che sport è se non si suda e non ti viene il fiatone?” avevo obiettato.
Ma aveva ragione lui. Gli ho dato retta, ho provato e ancora oggi, a trent’anni di distanza, amoreggio – peraltro non corrisposto – con drive, ferri e putter. Vagabondo da un campo all’altro, dalle Alpi alla Sicilia, dalla Spagna alla Turchia inseguendo nuove emozioni. Che sono poi le stesse che provo sulla 15 del Golf dei Laghi, il mio circolo, quando riesco a mettere il drive esattamente dove avevo programmato: lontano dalle insidie degli alberi, abbastanza lunga da vedere il green, ma a distanza di sicurezza dal bunker.
Accade non molto spesso, ma accade. E per quella sensazione unica, piacevolmente inebriante, pericolosamente simile al senso di onnipotenza non posso non ringraziare Piero e il suo consiglio di tanti anni fa. Non è stato l’unico che mi ha dato, ovviamente, visto che Piero era mio padre.
Ma forse è quello che più mi ha cambiato la vita.