ll signor Bryson DeChambeau mi è sempre stato piuttosto antipatico. Non lo conosco, sia chiaro.
Magari davanti a una birra o in spiaggia è un tipo di una simpatia contagiosa.
Ma a vederlo in campo e a leggere quanto spaccia per suo vangelo golfistico, è lontano anni luce dalla hit parade dei campioni che prediligo. Intanto è di una lentezza insopportabile.
Ad ogni colpo, forte della sua laurea in fisica alla Southern Methodist University di Dallas, studia, soppesa e ricalcola le mille variabili che ritiene contengano la tecnica perfetta dello swing.
Poi toglie dalla sacca uno di quei ferri che si fa realizzare tutti della stessa lunghezza (98,3) centimetri, cancellando di colpo le tradizioni e le convinzioni di secoli.
Fin da quando si usavano Niblick, Mashie o Cleek, Tom Morris aveva ben chiaro che più lungo era lo shaft, più lontana sarebbe andata la palla.
Il signor Bryson se ne infischia e decide che una lunghezza uniforme garantisce un movimento standard e quindi più affidabile.
Non solo: si è presentato in campo con compasso e goniometro per meglio valutare le pendenze dei green.
Ha addirittura cosparso le palline di epsomite – per noi che la laurea in fisica non ce l’abbiamo sarebbe il solfato di magnesio o, se preferite, il sale inglese – che servirebbe, a suo dire, per determinare con esattezza il centro di gravità.
Morale: un peso insopportabile da portarsi dietro come compagno di gioco per tutte le 18 buche: chiedere a Brooks Koepka, che qualche tempo fa fu a un passo da mandarlo platealmente a quel paese.
Il suo gioco lento, oltretutto, rappresenta un alibi perfetto per i giocatori nostrani, e sono tanti, che di darsi una mossa in fairway e in green non ne vogliono sapere.
Se lo fa DeChambeau, che è un campione e sa benissimo come si gioca, perché non dovrei farlo io che a ogni colpo devo ripassare il decalogo che il mio maestro tenta di inculcarmi a ogni seduta in campo pratica?
Come non bastasse la lentezza, adesso DeChambeau può diventare l’icona del golfista con la panza, categoria alla quale mi onoro di appartenere.
Se fino a qualche tempo fa eravamo guardati con commiserazione, appena attenuata dai buoni risultati che campioni dotati di apprezzabili protuberanze anteriori riuscivano a inanellare (da Jiménez agli Stadler), ora anche noi potremo sostenere, come fa il prode DeChambeau, che il sovrappeso ce lo siamo autoimposti per migliorare la distanza.
Il campione statunitense sostiene di aver guadagnato, con il lockdown, una ventina di chili dalla cintola in su e una trentina di metri sul driver.
E che la sua dieta a base di uova al bacon, carni bisunte e altre zozzerie più o meno commestibili sia in realtà una specie di allenamento atletico per aumentare la gittata dei suoi colpi.
Noi che ci arrendiamo alla prima lasagna di passaggio, alla polenta e cervo in rifugio, al tiramisù di fine pasto, da oggi abbiamo un alibi in più.
Né mia moglie né il mio dietologo ci crederanno mai, ma se l’ha detto DeChambeau…