Il tempo, si dice, è solo una convenzione. Non solamente perché un’ora può durare un’eternità in attesa di una risposta importante o di un appuntamento cercato con insistenza, oppure volare via in un attimo quando siamo noi ad essere in ritardo per un incontro o una consegna.
Le giornate che parevano lunghissime ai tempi del lockdown, quando eravamo segregati in casa, adesso passano in un amen subissate di cose da fare e di occasioni da recuperare.
Comunque, convenzione o no, stanchi di darsi appuntamento all’alba, al tramonto, al “sole alto nel cielo”, i nostri pro-pro-pro avi decisero un giorno di accordarsi e di dividere il tempo in ore, giorni, mesi e compagnia bella.
Vedersi “due clessidre dopo il tramonto” era sicuramente più comodo per la coppia di amanti rispetto alle attese infinite quando gli appuntamenti erano vaghi e indeterminati. Sfidarsi a duello un’ora dopo l’alba consentì ai più attaccabrighe di evitare gli interminabili e incerti indugi in attesa dei padrini e dell’avversario da sbudellare.
Amanti e duellanti non lo sapevano, ma era nata la scintilla della società tecnologica: dall’orologio allo smartphone, se ci pensate bene, il passo non è così spaventosamente lungo.
Il fatto è, però, che combinando insieme tempo e tecnologia si ottiene un cocktail devastante. E se i nostri nonni erano abituati all’attesa, a un ritmo di vita scandito dalle stagioni e dai cicli lunari, noi perdiamo la pazienza al minimo tentennamento quando l’auto che ci precede non parte allo scattare del verde.
Siamo una civiltà nevrotica, divenuta incapace di tollerare il minimo ritardo, incapace di gustarsi la vigilia, lanciati come siamo a consumare subito il dì di festa.
Perfino il cinema, la pubblicità, la musica ne sono vittime: tutto in pochi secondi, senza respiro, senza pause. Sarà che sono lanciato verso la terza età (gli ultimi studi sembrano concordi sul fatto che a 75 anni uno ha diritto a fregiarsi del titolo di “anziano”) e che sono venuto grande ai tempi della “Cittadella” di Cronin con Alberto Lupo nel camice del dottor Manson, quando le fiction si chiamavano “sceneggiati” e tra un fatto nuovo e l’altro potevi uscire a bere il caffè. Sarà che la voracità mi è sempre parsa un difetto e apprezzo la montagna, l’incedere lento e silenzioso verso la vetta che consente di non perdere neppure un particolare dei panorami che ci circondano.
Fatto sta che io, in questa società nevrotica e senza pause non mi ci ritrovo più. Con una sola eccezione: il golf.
Presi come siamo a correggere lo slice, ad allungare il backswing e a riportare square sulla palla la faccia del bastone, troppo spesso ci dimentichiamo dei privilegi che questo sport ci regala: l’ambiente, il silenzio, i ritmi naturali.
Diciotto buche ci affascinano anche (soprattutto?) perché sono un’isola di tranquillità nel ritmo di tutti i giorni. Con il nostro driver in mano, sembriamo tanti Ernesto Calindri accomodati sul tavolino in mezzo al traffico quando reclamizzava il Cynar: impermeabili al casino.
Come tutte le cose, però, occorre moderazione. D’accordo i ritmi naturali e l’abiura della nevrastenia, ma c’è modo e modo. Accoccolarsi in campo, bighellonare in fairway alla ricerca della pallina, perdere tempo tra un colpo e l’altro fa rientrare dalla finestra le nevrosi che volevamo scacciare. Vengono non a noi, ma al team che ci segue. Per cui, per recuperare il giusto ritmo, bisogna adeguare le cadenze: né troppo veloci, né troppo piano.
Il tempo è sì una convenzione, ma purtroppo ne abbiamo troppo poco da buttare.