Un’altra edizione del Masters, quello che per me è e rimane il major per eccellenza, si è conclusa con mille sorprese e capovolgimenti. Dal 2015 ho avuto la fortuna di vedere questo posto in tutte le sfaccettature, le sue caratteristiche uniche, le sfide che ha ospitato, il calore e la reazione dei patron, i suoi numeri impressionanti.
“Tante ne ho viste…”
Ho visto indossare la Giacca Verde a tanti campioni: Spieth, Garcia, Reed (purtroppo), Tiger, Scheffler e adesso Rahm. La pandemia mi ha tolto il piacere di vedere una delle scene più emozionanti dopo la vittoria di Matsuyama, con il suo caddie pronto a ringraziare il campo, rispettosamente e coraggiosamente domato.
Ho visto quasi vincere il giocatore italiano più forte dei tutti i tempi, che si è dovuto inchinare al più grande atleta che ogni sport abbia mai visto, Tiger Woods. Ho visto colpi strabilianti, numeri da circo, eagle, birdie. Ho visto anche flappe, socket, palle finite in acqua e spettatori crivellati da slice improvvisi o ganci al limite della balistica.
Ho visto essere umani scolarsi dieci birre una dopo l’altra, nonostante le 9 di mattina. Sono stato spettatore di sfide alla ‘Man vs Food’, dove il costo esiguo dei sandwich marchiati Masters ha facilitato il boccone del mitico “pimento cheese”, anche se era il quinto in due ore prima di pranzo.
Insomma, l’Augusta National ha nel DNA l’elemento sorpresa, pronto a stravolgere i piani di tutti. Forse anche di quelli che stanno lassù e che si divertono a giocare con il destino.
Cronaca di un maltempo annunciato
Quest’anno a farla da padrone è stato il maltempo. Annunciato da settimane, la tanto temuta perturbazione si è presentata sopra i cieli della Georgia scatenando tutta la sua rabbia. Per la prima vota ho visto i green dell’Augusta National allagarsi. Ancora girano le immagini dei due alberi vicini al tee della 17 che sono collassati davanti agli spettatori. Nessun ferito, tanta paura e il giorno dopo sembrava non fosse successo nulla.
Ha vinto Rahm, Koepka è crollato per colpa del gioco lento. Rory non pervenuto, Chicco fuori di un colpo al taglio. DeChambeau convinto ancora che il campo vada giocato par 68. La diatriba tra i giocatori del Liv e il resto del mondo. Mickelson abbandonato dal pubblico che per riconquistarlo (parzialmente) ha dovuto tirare fuori un quarto giro da fenomeno quale è.
Alla ricerca della felicità
Insomma, il mio Masters ogni anno mi regala spunti, emozioni e ricordi indelebili. Ma c’è qualcosa che manca da tempo. Stanno cambiando i nostri beniamini, i nuovi giovani sono programmati, freddi calcolatori, che vivono isolati da tutto e da tutti.
Non condividono, non si raggruppano, sono sparite le tribù. Il concetto di aggregazione tra giocatori è un lontano ricordo. Il tournament player ha come amico un Trackman e vive in perenne contatto con trainer, coach ed esperti di biomeccanica. Non trasmette emozioni, non gioca e flirta con il pubblico, ride perché va fatto, ma non riesce ad entrare in empatia con i patron.
Scheffler, Koepka, Reed, DJ, Willett e Spieth, sono solo alcuni dei campioni che sembrano essere lontani da quella che io definisco “La ricerca della felicità”. Questo stato mentale lo provi solo quando sei disposto a metterti a nudo, ad accettare i tuoi pregi e difetti, a entrare realmente in contatto con le migliaia di persone che ti seguono e che ti incitano.
Diventare un tutt’uno con l’istante che ti circonda, goderti ogni piccola sfumatura capendo che sei protagonista del gioco più bello del mondo, nel posto più unico del pianeta. Questo si traduce in emozioni pure, in reazioni di commozione sia per chi vince che per chi ha la fortuna di essere testimone oculare.
Questo Masters ci ha regalato (secondo me) solo un momento di vera apertura senza barriere da parte di un giocatore. Il suo nome è Justin Thomas, e quegli occhi al cielo bagnati dalle lacrime sul green della 18, dopo aver buttato al vento il taglio, mi ha fatto conoscere un giocatore che, anche se attraverso un’esperienza negativa, ha dimostrato di essere davvero alla ricerca della sua felicità.