La buca 4 dell’Augusta National Golf Club è un par 3 di 220 metri in discesa da far tremare i polsi a chiunque. Green a L rovesciata con pendenze da capogiro e due profondi bunker, uno a sinistra e uno centrale, lo difendono in modo egregio. Anche per i migliori giocatori del mondo, che ogni anno si sfidano al Masters, non è certo una ‘buca di riposo’ come si dice in gergo, se mai ce ne fosse stata davvero una ad Augusta.
Correva l’anno 2012 e per Golf & Turismo seguivo personalmente la 76esima edizione del major georgiano.
Al via del quarto giro, a sorpresa, aveva preso la testa della classifica lo svedese Peter Hanson con -9, seguito a una sola lunghezza da uno dei giocatori di casa più amati, Phil Mickelson, che di Green Jacket nell’armadio ne aveva allora già tre, l’ultima indossata solo due anni prima.
Dopo tre buche al seguito del penultimo flight, Louis Oosthuizen e Bubba Watson, decido di attendere i leader a sinistra proprio del green della 4, per godermi da vicino il loro passaggio. Un improvviso ‘Fore!’ e una frazione di secondo dopo la palla di Mickelson mi atterra a meno di un metro, infilandosi con un brutto rimbalzo ancora più a sinistra, praticamente nei rovi. Sgomitando, mi metto in primissima fila in attesa di vedere come se la caverà il mancino da quella situazione. Stiamo parlando di chi è universalmente considerato uno dei più forti al mondo nel gioco corto e io avevo la fortuna di vederlo all’opera praticamente da zero metri.
Visibilmente scontento del suo tee shot, Lefty arriva sul punto insieme a Jim ‘Bones’ Mackay, il suo fedele caddie sin dal primo anno sul Tour, il 1992.
Mickelson e Bones hanno sempre avuto un rapporto a dir poco conflittuale in campo: non si contano le volte in cui i due sono stati pizzicati dai microfoni nel bel mezzo di un’accesa discussione su quale bastone usare o come giocare un determinato colpo.
Mickelson è sempre stato un purosangue, un istintivo, come del resto tutti i grandi mancini che hanno fatto la storia non solo del nostro sport, e mal digeriva suggerimenti diversi dalla sua prima scelta. E così è stato anche in quell’occasione. Bones, prima ancora di poggiare la sacca, aveva già sentenziato: “Dobbiamo dropparla, non è giocabile”. Come dargli torto, in effetti: se anche fosse riuscito a prendere uno stance decente (impossibile, fidatevi), davanti aveva il bunker da volare e un’asta subito dopo l’ostacolo. Il disastro era dietro l’angolo quindi. Cinque minuti di scontro verbale non hanno fatto cambiare idea a Mickelson che è andato dritto per la sua strada. Niente droppaggio ma un colpo che finisce la sua corsa dritta in bunker, uscita lunga e due putt per un pesantissimo doppio bogey. Quel giro il mancino californiano lo chiuse in 72 per un totale di -8, a due-colpi-due dal playoff per il titolo insieme a Bubba Watson e Louis Oosthuizen, poi vinto dal primo.
Mickelson e Bones è solo una delle tante storie che troverete all’interno di questo numero, dedicato alla figura dei caddie, nati come semplici portabastoni e oggi diventati veri e propri consulenti tecnici in campo, uomini chiave per il successo o meno dei loro assistiti.
Pensateci bene: non esiste figura al mondo nello sport che sia così vicina all’azione come quella del caddie e allo stesso tempo così determinante per il risultato finale.
Un ruolo a volte sottovalutato che invece molto spesso è in grado di trasformare una catastrofe annunciata in un insperato trionfo.
Un concetto del resto valido sia per chi sogna di indossare la Giacca Verde sia per chi sta solo disperatamente cercando di portare a casa un sospirato par.